Storia di un mostro. «Ma non è stato Pacciani!»

Francesco Amicone

Prima puntata 19 maggio 2018

Terza puntata 21 maggio 2018

Depistaggi, accuse, fandonie. Chi è il Mostro di Firenze? E perché credere alla storia dei “Compagni di merende”? E chi diavolo è “l’americano”? Seconda puntata

PARTE II

I compagni di merende

Giancarlo Lotti, detto “Katanga”, non torna indietro, nemmeno quando sbaglia. Il fatto di non avere nemmeno la licenza elementare è uno dei motivi per cui deve elemosinare quotidianamente vitto e alloggio. Tuttavia a cinquant’anni dice ancora: «La scuola ’un serve a niente». Lotti non tornerà ma indietro sulle sue decisioni, nemmeno sulla testimonianza sui presunti “mostri” di Firenze.

All’inizio del 1996, mente Pacciani sta per essere assolto, lo Stato – di solito assente – arriva a casa di Lotti (cioè dal prete che lo ospita) gli offre un vero alloggio e uno stipendio. In cambio, Katanga deve fare una sola cosa: diventare il famoso testimone che ha sconfitto il Mostro di Firenze. Lotti conosce Pacciani. Sa che è una persona violenta. E poi è avaro: non gli ha mai dato un quattrino in vita sua. È così che Lotti, il quale non ha un soldo né per la benzina né per il vino, accetta e inizia a “cantare”.

C’è una ragione per cui Katanga è il testimone Beta e non Alfa: la sua testimonianza è successiva a quella del suo amico di “girate”, Fernando Pucci. Il testimone Alfa, Pucci, è l’origine della teoria accusatoria dei “Compagni di merende”. Nel gennaio del 1996, Pucci aveva riferito alla squadra anti-Mostro guidata allora da Michele Giuttari che lui e il suo amico Lotti avevano visto Pacciani agli Scopeti, l’8 settembre 1985. Viaggiavano sull’auto (non assicurata) di Lotti. Si erano fermati alla piazzola dove erano i francesi per orinare, poi – racconta Pucci a processo – «si sentì uno, du spari, e s’andò a vedere che c’era». Nel video girato al processo, le immagini successive al momento in cui Pucci racconta questa storia, si soffermano sul suo amico Katanga, in Aula, che alza la mano e dice: «Quelle cose, le ho raccontate io a Fernando». La storia che Pucci ha appena raccontato è inventata: non era a Scopeti. E Pucci stesso conferma subito le parole dell’amico: «Sì, queste cose me le ha raccontate Lotti». Ormai è chiaro a tutta la Corte che il certificato di oligofrenia (ovvero demenza) della Regione Toscana che Pucci aveva esibito prima di testimoniare gli era stato dato per un motivo.

L’ex procuratore Tony commenta la decisione di portare a processo Alfa e Beta così: «Lasciamo perdere Pucci, che – poveretto – aveva una malattia mentale. Rammento però che quando venne fuori il nome di Lotti, il prete che lo aveva in carico chiamò in Procura per avvertirci di non ascoltarlo». Eppure sarà proprio lui, Beta, il pilastro (l’unico rimasto, dopo l’exploit di Alfa) della teoria dei cosiddetti “Compagni di merende”. Un gruppo composto dal contadino Pacciani, l’analfabeta Lotti e il postino Mario Vanni, detto Torsolo.
«Né Torsolo, né Katanga sapevano sparare», osserva Tony «e nessuno di loro aveva il fisico o la mente del serial killer. Nemmeno Pacciani». Nessuno di loro, il 9 settembre 1983, con una damigiana di vino rosso sullo stomaco e un cuore infartato, sarebbe mai riuscito con un solo caricatore a colpire a morte i due giovani tedeschi – Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch – al buio, e attraverso le lamiere di un pullmino Wolkswagen.

«Lotti ha sbagliato più volte a ricostruire le dinamiche degli omicidi – conclude Tony –. Talvolta le sue menzogne sono odiosissime. Come quando sul delitto di Vicchio del 1984, nel quale persero la vita Pia Rontini e Claudio Stefanacci, racconta che la ragazza sia morta urlando e gemendo. Ma tutte le perizie dei medici legali dicono che Pia ha immediatamente perso conoscenza».

La prova scientifica delle menzogne di Lotti
«È un dato storico il fatto che nel processo ai “Compagni di merende” non ci fu una sola prova di colpevolezza che suffragasse le testimonianze di Lotti», racconta Nino Filastò, all’epoca avvocato di Mario Vanni. Anzi. Semmai ci sono le prove scientifiche del contrario. Una di queste, fu trovata da un certo “De Gothia”. Dietro a questo nickname si nascondeva un brillante “mostrologo” che per anni si è dedicato allo studio dei delitti del Mostro, divulgando le proprie indagini in pubblicazioni semi-clandestine sul web. De Gothia demolisce la testimonianza di Lotti partendo da un’immagine scattata da Ennio Macconi, fotografo de La Nazione, il 22 giugno 1982, all’indomani del delitto “numero 4” del Mostro. La fotografia immortala l’auto delle vittime, sotto sequestro nel parcheggio dei Carabinieri di Signa, e dimostra scientificamente che Lotti ha semplicemente “copiato” la versione degli inquirenti (sbagliata). Ma non ha visto nulla.

La Fiat 147 nella quale Paolo Mainardi e Antonella Migliorini furono uccisi nel 1982 era stata trovata dai soccorritori e dalle forze dell’ordine pochi minuti dopo il delitto, in un canaletto di scolo che fiancheggiava la strada, nella parte opposta a quella dove le vittime l’avevano parcheggiata. Lo sportello del guidatore era bloccato.
Gli inquirenti, la stampa e Lotti hanno sempre sostenuto che i “Compagni di merende” abbiano aggredito la coppia e, quindi, che Paolo, nel tentativo di fuggire, sia finito fuori strada in retromarcia con l’auto. Le cose non andarono così. De Gothia smonta puntualmente la ricostruzione ufficiale del delitto, sulla base della legge di gravità. Nella fotografia scattata da Macconi all’auto delle vittime appare nitidamente una colatura di sangue perpendicolare al terreno sulla parte inferiore dello sportello del guidatore, all’altezza della guarnizione. Il sangue è colato sulla carena mentre l’auto era in piano e lo sportello era aperto. L’auto però fu ritrovata in posizione obliqua e con lo sportello chiuso e bloccato. Siccome il sangue rapprende in sei lunghi minuti, le vittime non potevano che essere già ferite a morte quando il killer aveva richiuso la portiera dell’auto. Evidentemente, conclude De Gothia, era stato il Mostro, non Mainardi, a guidare l’auto fuori dalla piazzola, sbagliando manovra e finendo nel canaletto. Lanciare con rabbia le chiavi dell’auto e sprecare tre proiettili – come il Mostro fece – uno per fanale e uno sul parabrezza, dopo un simile scivolone, era sicuramente più logico che farlo prima di avere ammazzato i due ragazzi.

Lotti ha mentito. Questa è una prova scientifica. Non opinabile come lo erano (a parere della Corte) le altre sei testimonianze di quella sera che contraddicono (tutte) la versione del testimone Beta.

Il parco macchine dei “Compagni di merende”
Stando alle parole di Lotti, lui e i suoi conoscenti si spostavano per le stradine del Mugello e del Chianti con un intero parco macchine, per pianificare e portare a termine i loro delitti. «La sera del 19 giugno del 1982 avrebbero parcheggiate due automobili lungo il rettilineo di Via Virginio Nuova», racconta Francesco Cappelletti, scrittore e specialista del caso Mostro, «ma nessuno le ha viste. Come è possibile?».

Via Virginio è una striscia d’asfalto che si snoda per chilometri nelle campagne del Chianti. Il punto dove fu ritrovata l’auto di Mainardi è al centro di un tratto lungo centinaia di metri e senza traverse, a parte una vicolo chiuso. «Eppure», commenta Cappelletti, «furono ben cinque i testimoni oculari che quella sera non videro i “Compagni di merende”». «Le auto su cui viaggiavano i testimoni – prosegue lo scrittore – procedevano dalle due direzioni opposte del rettilineo. Notarono la Fiat 147 delle vittime prima e dopo che fosse finita nel canaletto, ma non le due automobili descritte da Lotti. L’intervallo delle testimonianze è di pochi minuti. Se nessuno di loro ha visto uno dei Compagni di merende, né ha mai incrociato una delle loro automobili, è perché Lotti ha mentito».

A suffragare il fatto che Lotti abbia raccontato una grossa frottola, oltre alla forza di gravità e agli occhi dei cinque ragazzi che quella sera videro la scena del crimine prima e dopo lo “spostamento”, c’è un sesto testimone, Lorenzo Allegranti, il barelliere che quella notte soccorse le due vittime. Allegranti ha sempre sostenuto che il ragazzo (agonizzante) si trovasse sul sedile posteriore e non su quello anteriore dell’auto, dove invece avrebbe dovuto trovarsi, secondo il racconto di Lotti. La testimonianza di Allegranti – come tutte le altre, esclusa quella di Lotti – fu ignorata dalla Corte. Contro il parere della Procura generale guidata da Piero Tony (cioè l’accusa), la sentenza definitiva del Tribunale di Firenze fece passare alla storia il serial killer degli anni Ottanta (solitario, freddo e calcolatore, che sfidava con successo la polizia) come una grottesca combinazione fra l’“anima nera”, colta e secolare di Firenze, e una combriccola di avventori della Taverna del Diavolo che lavorava – presumibilmente – su commissione di una corrente deviata di una loggia massonica perugina.

Dal singolo assassino su cui tutta la scienza criminologica puntava (e punta) il dito, si era passati via via a una comunità di peccatori più grande, senza mai arrivare al colpevole. Non è un caso che l’unica verità processuale esistente – ad oggi – è che non esiste alcun colpevole materiale dei delitti addebitati al Mostro di Firenze. «Il serial killer, se è vivo, è ancora in libertà», commenta Cappelletti.

Il delitto degli Scopeti
Cappelletti era un bambino quando nel settembre del 1985 furono uccisi Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili, in una piazzola di Via degli Scopeti, a Falciani. «Io e i miei amici stavamo giocando a calcetto – racconta Cappelletti –. Ricordo ancora l’odore di mortadella che usciva dalla bocca del bambino che ci raccontò del nuovo e tremendo delitto del Mostro». Colpiva anche l’immaginazione dei più piccoli, il Mostro. «Era un comunicatore, gli piaceva fare paura», osserva Cappelletti. «Noi bambini, poi, ce lo figuravano proprio come un essere con tentacoli e molte teste».

Insieme all’avvocato delle vittime Vieri Adriani e all’amico d’infanzia di Jean-Michel, Salvatore Maugeri, Cappelletti ha scritto il libro Delitto degli Scopeti. Giustizia Mancata (Ibiskos Ulivieri, 2013). Nel libro, si elencano una serie di circostanze che portano a riflettere sugli errori di Carabinieri e Polizia e sulla reale identità del serial killer. Le ricerche dei tre autori sono alla base della riapertura dell’inchiesta sul Mostro, dal giugno del 2017, che ha portato gli inquirenti guidati dal Sostituto Procuratore di Firenze Paolo Turco e la sua squadra di investigatori a mettere sott’occhio l’ex legionario francese Giampiero Vigilanti e alcune sue amicizie.

«L’ultimo delitto del Mostro – spiega Cappelletti – è importantissimo per le indagini. Oltre ad essere l’ultimo delitto “ufficiale” del serial killer, è anche l’unico duplice omicidio in cui l’assassino ha nascosto le vittime, invece di ostentarle. Perché?». Non è l’unica domanda che riguarda le anomalie del delitto degli Scopeti.

«Nadine Mauriot era una donna sulla trentina, benestante. Jean-Michel un ragazzo più giovane di lei, che amava l’avventura e suonare la batteria. Quando arrivarono a Scopeti il 6 settembre 1985, decisero di piantare la tenda lì. Per quale motivo? Avevano incontrato qualcuno? Cosa avrebbero potuto visitare, lì?»
Le uniche due attrazioni accessibili velocemente – usando l’automobile – dalla piazzola dove i francesi avevano piantato la tenda erano il Cimitero monumentale americano e la casa dove Machiavelli scrisse il Principe. Per visitarle sarebbe bastato loro un giorno.

«Senza alcun motivo apparente Nadine e Jean-Michel, sono rimasti per ben tre giorni in una piazzola sporca, di fianco a una strada trafficata e distante svariati chilometri da Firenze», commenta Cappelletti: «Perché?». La risposta a questo quesito potrebbe essere la chiave della soluzione del caso.

Mosche e scontrini
Vieri Adriani, Maugeri e Cappelletti notano che non fu trovato nessuno degli oggetti per la toilette delle vittime, nella tenda e nell’auto. «Dai verbali non risultano repertate né bottiglie d’acqua né cibo. Nessun dentifricio o spazzolino. Non avevano né sapone né deodorante», commenta Cappelletti.

Che Nadine fosse una persona pulita lo dimostrano le sette mutandine che i Carabinieri elencano fra i suoi effetti personali. Una per ogni giorno del suo viaggio in Italia con Jean-Michel. Possibile che si fosse dimenticata il necessaire per lavarsi e non l’avesse comprato? A meno di una svista clamorosa dei Carabinieri (o di un segreto investigativo) il killer portò via ogni possibile elemento che potesse far risalire con certezza al giorno dell’omicidio. «Sarebbe concorde – spiega Cappelletti – con l’occultamento dei corpi delle vittime».

A conferma dell’astuzia del Mostro c’è il fatto che nonostante sulla scena del crimine del 1985 per la prima volta intervenga uno specialista, il professor Francesco De Fazio, l’assassino sia riuscito effettivamente nell’intento di ingannare gli inquirenti (e il “testimone” Lotti). «Una recente inchiesta del giornalista Paolo Cochi, basata sulle osservazioni di esperti entomologici, ha dimostrato tramite lo studio delle larve di mosca carnaria fotografate sui cadaveri delle vittime a pochi giorni dal ritrovamento, che la data dell’omicidio di Scopeti è quasi sicuramente sbagliata. Nadine e Jean-Michel non furono uccisi l’8 settembre – come sostenevano l’accusa e Lotti nel processo ai “Compagni di merende” – ma uno o addirittura due giorni prima».
«L’ipotesi – conclude Cappelletti – è suffragata dagli scontrini ritrovati fra gli effetti personali dei francesi. Ne sono stati ritrovati molti, uno per ogni giorno del loro viaggio in Italia. I più recenti attestano la loro presenza la mattina del venerdì a Tirrenia, al ristorante La Terrazza, e poi a Pisa. Non è stato trovato alcuno scontrino risalente a sabato e a domenica». Forse perché, la mattina di sabato 7 settembre, Nadine e Jean-Michel erano già morti.

«Veniva dall’America»
30 giugno 2003. Di fole sul Mostro se ne sono sentite tante. Le bugie del testimone Beta sono arrivate a lambire il farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, che in quei giorni è sotto inchiesta come fantomatico “mandante” dei Compagni di merende (cadranno tutte le accuse, ma l’assoluzione definitiva non farà molto rumore). In questo contesto, nel carcere di Pisa “Don Bosco”, la polizia giudiziaria intercetta una conversazione fra Vanni, condannato all’ergastolo per complicità nei delitti del Mostro, e il suo amico Lorenzo Nesi.

Vanni non ha mai parlato del Mostro, in un’aula di tribunale. Al processo, si era limitato a professare la propria innocenza e a mandare a quel paese i giudici e i Pm, appellandosi prima a Mussolini e poi a Gesù Cristo. Quando conversa con Nesi, l’ex impiegato delle Poste di San Casciano è già condannato in via definitiva. Non ha alcuna ragione per mentire. Parlando con il suo amico (il quale cerca di fargli ammettere che il Mostro è Pacciani) Vanni a un certo punto esplode con un: «Ma non è stato Pacciani!». Torsolo difende con decisione il Vampa. Nesi è sorpreso. Poi al postino sfugge un’informazione che non si era mai sentita prima di allora. Dice: «È stato nero, Ulisse, l’americano. È stato lui che li ha ammazzati tutti e 16, quella belva feroce». Nesi è sconcertato: «Storie da grand’hotel». Ma Vanni rincara: «È vero: veniva dall’America».

Si racconta che il pm Paolo Canessa abbia fatto un salto sulla sedia quando ha sentito questa registrazione. Chi diavolo è “l’americano”? Come un lampo gli inquirenti ritornano a quel 22 ottobre 1981, a Calenzano, quando aveva fatto breccia nelle cronache italiane per la prima volta il vocabolo “serial killer”. Ricordano l’esclamazione di un anonimo detective: «Questa è un’americanata!». Canessa chiede a Nesi di approfondire. Il postino non aggiunge nulla di più. Se ha accusato Ulisse, lo ha fatto perché non sapeva di essere intercettato. Quando al processo a Calamandrei l’accusa gli domanderà del misterioso americano, Vanni non dirà una sola parola. All’indomani delle intercettazioni, la squadra di polizia capitanata da Michele Giuttari aveva interrogato una conoscente di Lotti, la mondana Patrizia Ghiribelli, e aveva ritenuto che l’americano di cui parlava Vanni fosse Mario Parker, un fashion designer gay di colore residente in Via dei Giogoli a Villa “La Sfacciata”. «Lo chiamavano “Uly”», aveva raccontato la ben poco attendibile Ghiribelli. La madre di Parker negherà recisamente di aver mai sentito quel soprannome. D’altronde che Ulisse non sia Parker – morto di Aids nel 1996 – lo dimostra il fatto che né Pacciani né Vanni lo abbiano mai citato quando, dalla tomba, non poteva più spaventare nessuno.

Passano gli anni, i presunti “mandanti” dei Compagni di merende vengono assolti, ma l’idea che il quadro accusatorio sia più o meno esatto, resiste. Il giornalista Mario Spezi – cronista della Nazione che aveva seguito il caso del maniaco fiorentino sin dagli anni ’80 – finisce addirittura in prigione, accusato di «depistaggio». Nelle librerie, in televisione, in tutta Italia tranne a Firenze e in ristretti circoli di esperti, la vulgata vuole che il Mostro e i Compagni di merende siano una cosa sola.

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20 Maggio 2018 Stampa: Tempi – Storia di un mostro. «Ma non è stato Pacciani!»
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