Storia di un mostro

Francesco Amicone

Seconda puntata 20 maggio 2018

Terza puntata 21 maggio 2018

Racconto-inchiesta di Tempi su un caso irrisolto. Il guardone, i sardi, il contadino e un serial killer che uccise sette coppie di giovani nelle campagne fiorentine fra il 1974 e il 1985

PARTE I

Il guardone, i sardi e il contadino

Sant’Angelo è una frazione ai margini di Calenzano e Sesto Fiorentino: pochissime case circondate dai campi e dalle montagne. Non distante dalle abitazioni, in una traversa campestre dell’unica via che fa il giro della valle, un’iscrizione su una croce di pietra ricorda due nomi: Susanna Cambi e Stefano Baldi. Erano due ragazzi di Calenzano, soliti appartarsi la sera ai margini di un boschetto di olivi. La notte del 22 ottobre 1981 furono uccisi a colpi di pistola dall’uomo che è passato alla storia come il “Mostro di Firenze”, un brutale assassino che uccise a colpi di calibro 22 almeno sette coppie di giovani nelle campagne fiorentine fra il 1974 e il 1985.

Sono passati più di trentanni da quei delitti, ma i fiori ai piedi della croce che ricorda Susanna e Stefano sono ancora freschi. «È bello che la gente non si sia dimenticata di Susanna e Stefano», commenta Edoardo Orlandi davanti al loro memoriale. Prima di diventare un criminologo dell’Università di Firenze, Orlandi era già uno studioso del caso “Mostro”. Come tutti i nati negli anni Ottanta, Orlandi è cresciuto in un ambiente in cui il serial killer è diventato parte integrante della storia della città attraverso i processi degli anni Novanta. Nessuno dei quali arrivò ad alcuna verità definitiva sull’autore materiale dei delitti. «Pochissimi fiorentini credono che il Mostro sia mai stato realmente individuato», osserva Orlandi.

Pazzo e scaltro
Le forze dell’ordine non capiscono immediatamente di avere di fronte un serial killer. «Soltanto la mattina successiva al delitto di Calenzano – rammenta Orlandi – la gente fiorentina si rende conto che davvero c’è un maniaco omicida che va a caccia di coppiette appartate nelle notti senza luna. E stavolta l’assassino spaventa anche l’opinione pubblica toscana che, in maniera un po’ pittoresca, per sdrammatizzare, lo aveva battezzato “Cicci, il mostro di Scandicci”».

Dal 22 ottobre 1981, quello che pochi mesi prima sembrava essere stata l’opera di uno sbandato schizofrenico assume un nuovo significato. «Gli abitanti di Firenze si trovano di fronte a una persona socialmente organizzata, le cui turbe, per quanto gravi, gli permettono di agire in maniera fredda e lucida», spiega Orlandi. È un pazzo, ma non è uno schizofrenico. Gli inquirenti hanno ora di fronte qualcosa che in Italia, prima di allora, si era visto soltanto al cinema. Un serial killer “all’americana”. Una delle menti più scaltre che gli investigatori italiani si siano mai trovati a combattere e anche, sottolinea Orlandi, «uno dei pochissimi assassini seriali che abbiano avuto successo».
Dal giorno in cui compì il delitto di Calenzano e per cinque lunghi anni, il “maniaco” armato di torcia, pistola e coltello, che di familiare non aveva nulla né alle cronache fiorentine né a quelle italiane, diventò la notizia principale dei giornali locali.

Un killer “provinciale”
«Benché sia passato alla storia come il Mostro di Firenze – ricorda Orlandi – i delitti rivendicati dal maniaco omicida non avvennero mai in città, ma nei paesini che la circondano». Borgo San Lorenzo, Scandicci, Calenzano, Galluzzo, Vicchio, Baccaiano, Falciani. Questi i nomi dei luoghi del crimine scelti dal serial killer. «Si tratta di piccoli cortili, dove le chiacchiere sui delitti facevano velocemente il giro dei bar», racconta Orlandi. Creando non pochi problemi.

Il primo a pagare con la galera una parola di troppo fu Enzo Spalletti, guidatore di ambulanze. Spalletti praticava uno “sport” molto in voga nella provincia di Firenze degli anni Ottanta: spiare le coppiette appartate in auto. Durante la notte decine di persone si sparpagliavano nella campagna di Firenze, lungo i filari di cipressi, fra i boschi di acacia, armate di binocolo a infrarossi e microfoni, per osservare le coppiette che facevano l’amore in auto. Molti di loro, l’indomani, si ritrovavano nelle taverne del Chianti per scambiarsi fotografie e registrazioni audio.

«Spalletti la mattina del 7 giugno 1981 zappetta l’orto, poi va al bar, dove dice agli avventori di avere visto i corpi delle due vittime di Scandicci. Viene subito arrestato». Come va a finire? «Tre mesi dopo l’assassino colpisce di nuovo a Calenzano, portando alla liberazione di Spalletti e annunciando ai fiorentini: “Avete di fronte un vero serial killer, non un guardone”». Il Mostro continuerà a rivendicare la paternità dei crimini anche negli anni successivi, liberando con i suoi delitti, uno ad uno, tutti i sospettati. «Si fermerà soltanto nel 1985, quando in galera ormai non c’è più nessuno – osserva Orlandi – come a dire: “Non mi serve il vostro aiuto”».

La pistola del Mostro
Nel 1989 si chiudono i conti con la cosiddetta “pista sarda”. Per sette anni i detective avevano seguito le tracce del Mostro a partire dai bossoli trovati nel 1982 in un faldone di un processo per un duplice omicidio maturato in ambiente sardo (Barbara Locci e Antonio Lo Bianco – 22 agosto 1968). I bossoli erano identici a quelli rinvenuti sulle scene del crimine del serial killer dal 1974 in poi. Ma per il delitto del 1968 esisteva già un colpevole, che era in carcere: il marito di Barbara Locci, Stefano Mele.

Si possono nutrire dubbi sulla paternità del crimine del 1968, «ma riguardo alla responsabilità di Mele – ricorda Orlandi – è un fatto che il marito della Locci fosse stato trovato con il grasso sulle mani, la mattina all’indomani del delitto. Mele – prosegue il criminologo – non ha mai saputo dare un motivo per quello che è apparso agli investigatori dell’epoca come un banale tentativo di ingannare il guanto di paraffina (test al quale Mele risultò comunque positivo)». Mele si addebitò il crimine, poi accusò i parenti. Alla fine fu condannato. Si pensò dunque che il serial killer potesse in qualche modo avere avuto accesso alla pistola usata nell’omicidio del 1968 e averla usata successivamente. Furono arrestati uno per uno tutte le persone che potevano avere partecipato al delitto del 1968: Francesco Vinci, Piero Mucciarini, Giovanni Mele. Fu arrestato con un’altra scusa anche Salvatore Vinci. Non si trovò nulla.

Dal vero killer a Pietro Pacciani
Chi è veramente il killer delle coppiette? Che personalità si nasconde dietro la maschera che veste con il suo pubblico? Il Mostro, secondo Orlandi, «molto probabilmente appare come una persona normale, altrimenti non si spiegherebbe perché non sia mai stato possibile individuarlo fino ad ora». «È una persona con due vite – chiarisce il criminologo -: in quella normale, è un cittadino come gli altri, in quella segreta è il maniaco delle notti senza luna». Forse questo è uno di quei rarissimi casi in cui i criminologi hanno realmente di fronte qualcuno che incarna il protagonista di Robert Louis Stevenson, il celebre “Dr Jekyll e Mr Hyde”. Nei suoi delitti, il Mostro sembra ostentare due facce: «Da una parte è la persona pratica, efficiente e scaltra, sicura di sé che non lascia tracce e indizi; dall’altra, è il maniaco che corre rischi altissimi, pur di rispettare i propri folli rituali e sfidare gli investigatori», dice Orlandi.

La perizia criminologica dell’equipe dell’Università di Modena stilata da Francesco De Fazio, Ivan Galliani, Salvatore Luberto nel 1984 descrive il Mostro come «metodico», «sistematico», «cauto», «astuto». I periti sottolineano però che il Mostro soffre di una patologia psichica grave, che raggiunge l’apice della fase acuta nel momento in cui uccide. «L’eccezionalità di questo serial killer – sottolinea Orlandi, parafrasando la perizia dell’Università di Modena – è che porta a termine i suoi agguati in una situazione di forte carica emotiva. Eppure, in questa fase di psicosi acuta, è capace di modulare la forza, avvicinarsi in silenzio alle vittime, mirare e colpirle, spostare i corpi e mutilarli. È riuscito anche a cambiare velocemente le armi e la torcia, al buio. Il tutto senza fare errori». «Il Mostro – conclude Orlandi – è un maniaco che si muove fra il Mugello e il Chianti con la stessa sicurezza di un sicario». Una persona distante anni luce dal risultato dello “screening” del “super-computer” con cui la Procura di Firenze guidata da Pier Luigi Vigna arriva al nome di Pietro Pacciani.

Dov’è finito il bottino del killer?
Nel 1990, la Squadra anti-Mostro (Sam) della Questura di Firenze sta ancora cercando l’autore dei sette duplici omicidi a sfondo maniacale avvenuti nelle campagne fiorentine fra il 1974 e il 1985. Qualche anno prima, in una lettera anonima, un presunto Mostro aveva avvertito gli inquirenti: «Non mi prenderete se io non vorrò… Sono molto vicino a voi». Autentica o no, la lettera confermava l’impressione degli agenti della Sam. Il killer era sempre stato un passo avanti a loro. Come se conoscesse in anticipo le loro mosse. D’altronde perché non erano riusciti a fermarlo né le finte coppiette di agenti né i blocchi della polizia e dei carabinieri né le indagini né gli arresti? Che cosa aveva dato al Mostro la sicurezza di poter sfidare la città e la polizia, agendo sempre nello stesso periodo, ogni anno, per cinque anni consecutivi? In quale modo era riuscito a pianificare i suoi delitti in un territorio in massima allerta, cosparso dal Chianti al Mugello di eufemistici avvertimenti “Occhio, ragazzi: pericolo di aggressioni”? Come era stato possibile che, nonostante le precauzioni e le risorse impiegate, nonostante la taglia di 300 milioni di lire – l’unica mai emessa dallo Stato italiano – il killer l’avesse scampata?

Sicché, quando i fiorentini scoprono che l’indagato principale della Procura di Firenze è Pierino Pacciani, mestiere contadino, il «giovanotto fello» del quale cantava il menestrello Giubba nelle fiere di paese, la gente scuote il capo. Ci vorrà tutto l’impegno dei mass-media per far accettare a una più ampia minoranza di fiorentini che il Vampa – come era soprannominato in paese – sia l’assassino che aveva terrorizzato la città per un lustro e dal quale i cittadini si sentono ancora minacciati. Ma la Procura della Repubblica guidata da Pier Luigi Vigna ne è certa: il Mostro è lui.

Quando iniziano le indagini su Pacciani, Ruggero Perugini, capo della Sam è appena tornato da Quantico, sede del Behavioral Science Unit dell’Fbi – gli specialisti mondiali della disciplina “omicidi seriali”. Roy Hazelwood, guru dell’unità, aveva avvertito il detective italiano: «Se trovi questi ninnoli, significa che hai trovato l’assassino». Hazelwood aveva mostrato a Perugini alcuni oggetti che i criminali come il Mostro di Firenze custodiscono gelosamente. I criminologi lo definiscono “bottino”. Sono gli effetti personali delle vittime che i serial killer rubano per ricordare e rivendicare i propri omicidi.
Ad oggi, non è mai stato trovato nulla del genere, nella casa di Pacciani e di ogni altro sospettato.

La selezione
Era toccato al guardone, poi ai sardi. L’imputato, stavolta, era figlio e nipote di mezzadri. In paese, a San Casciano, per tutti era il Vampa. La sua faccia paonazza testimoniava che del freddo e scaltro serial killer, il contadino non aveva nulla. Uno dei testimoni, al processo, dirà di averlo scambiato per il dio Bacco, mentre serviva vino a una Festa dell’Unità degli anni Ottanta. Eppure l’accusa si era messa d’impegno per scovare qualcuno che raccontasse qualcosa di compatibile con il quadro accusatorio (un assassino seriale, calmo, lucido e soprattutto sobrio). Forse Pacciani terrorizzava qualcuno a San Casciano? Nemmeno questo. Si scoprì che il Vampa non le aveva soltanto date (le botte) ma ne aveva anche prese, e tante: una bastonata nel 1951 da Giampiero Vigilanti, ex legionario francese di Prato; molte borsettate da “Cinzia”, prostituta che batteva tra la Via degli Scopeti e la Cassia; qualche schiaffone dal guardiacaccia Gino Bruni, che Pacciani aveva minacciato con un forcone. Storie di paese, queste, che però appaiono più autentiche delle analisi “scientifiche” sulla personalità “segreta” di Pacciani che giravano sui giornali in epoca processuale.

L’ex Procuratore generale di Firenze, Piero Tony – che rappresentava l’accusa al processo d’appello sul Mostro – chiese l’assoluzione di Pacciani e la ottenne. Sulla colpevolezza del Vampa, vent’anni dopo, ha ancora la stessa idea che avevano di lui gli avvocati Rosario Bevacqua e Pietro Fioravanti: «Pacciani era un uomo che commise molti crimini nella sua vita, ma non era il Mostro», dice Tony.
L’ex Pg di Firenze ha sempre criticato il metodo che la Procura della Repubblica decise di utilizzare per arrivare all’identità del Mostro: «Il meccanismo per il quale si era rivolta l’attenzione su Pacciani – racconta Tony – fu il seguente: fra le tante cose, si presumeva che il serial killer avesse attirato l’attenzione di qualcuno; poi, che avesse la fedina penale sporca e che fosse residente nella provincia di Firenze». «Pacciani – prosegue l’ex procuratore – era stato segnalato da una lettera anonima, aveva precedenti penali (aveva ammazzato un uomo nel 1951 e aveva abusato per anni delle proprie figlie), abitava a San Casciano e non era in galera quando il Mostro aveva ucciso. Si dedusse quindi che Pacciani potesse essere il serial killer». «In verità, questo meccanismo – spiega Tony – non è stato pienamente rispettato. Stando ai parametri che gli inquirenti si erano dati il nome di Pacciani doveva essere fuori dalla lista dei sospetti. Per due motivi: non rispettava – per niente – il profilo stilato dai criminologi; al tempo dei delitti non era in salute (aveva subito un infarto)».

La coppia di francesi Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili, uccisi a San Casciano nel settembre 1985


Il colpo gobbo
Per qualche oscura ragione, il detto «contadino: scarpe grosse e cervello fino» fu sbandierato dalla stampa schierata con la Procura della Repubblica come un indizio di colpevolezza in un caso di omicidi seriali. Si dimenticava così che il sillogismo rendeva sospette tutte le persone con gli scarponi da lavoro e un quoziente intellettivo sopra la media. Non soltanto i contadini. Ma anche – per esempio – quell’uomo da cui Pacciani si sentiva “perseguitato”. Era costui «l’intellettuale con i piedi lunghi» che gli aveva impedito l’accesso alla casa di una vecchia chiromante del paese. Oppure l’uomo misterioso che lo pedinava negli incubi, il “generale della morte”. E anche il personaggio in abiti soldateschi e con i scarponi militari alla “Mickey Mouse”, che compariva in un disegno dell’artista cileno Christian Olivares, un bozzetto di una scenografia teatrale che per qualche strano motivo fu trovato nella casa del Vampa invece che negli studi del committente, il cineasta Raphael Ruiz.

Pacciani aveva ribattezzato l’opera di Olivares: “Sogno di Fantascienza, un’estate a San Casciano”. Vi aveva apposto la propria firma in calce e l’aveva messa sopra il caminetto in salone. Gli psicologi sentiti dalla Procura non videro in esso un trittico di denuncia al regime di Pinochet – cosa che in effetti era – ma l’opera di uno squilibrato, un maniaco sessuale affetto da gravissime turbe. Il critico Vittorio Sgarbi, sentito che la Procura di Firenze attribuiva al Vampa la mano di un seguace di Salvador Dalì, colse ovviamente la palla al balzo per una delle sue intemerate. Il vero autore – in esilio alle Canarie – mandò un fax a Repubblica, illustrando il senso del disegno agli psicologi. Era furibondo. Il Vampa si limitò ad alzare le spalle: «L’ho sempre detto che l’ho colorato e basta».

Agli inizi del 1993, nemmeno Perugini sembrava essere certo della colpevolezza di Pacciani. Mentre indagava sul contadino di San Casciano, il capo della Sam si era appellato pubblicamente a un serial killer ancora senza volto. Perugini gli aveva offerto una mano per «uscire dall’incubo». Come reagì all’appello, il Mostro? Pochi mesi dopo, in aprile, i detective durante una perquisizione trovarono un proiettile calibro 22 nell’orto del contadino di Pacciani. «Un chiodo gobbo?», chiese il Vampa, mentre Perugini gli mostrava il reperto. Non è un “chiodo”, ma un “colpo” gobbo. Lo era a tutti gli effetti. Era una cartuccia curva, deforme e simile a quelle che il Mostro aveva lasciato sulle scene del crimine. Era infilato in un paletto della vigna del contadino. Proprio nel punto di rottura di un paletto spezzato da meno di una settimana.

Bisognò arrivare al processo d’appello, tre anni più tardi, perché la Corte e la Procura fossero avvertiti informalmente dal perito della difesa, Enrico Maniero, che quel proiettile era un “falso”: era stato caricato su un’arma diversa da quella del killer. La conclusione era ovvia: qualcuno aveva voluto incastrare Pacciani.

«Una colonna infame»
«Prima del processo, ci arrivò anche una lettera anonima con allegata un’asta guida e molla di una Beretta – racconta Tony –. L’autore della missiva definiva il Vampa: “Il diavolo che incanta i bischeri in Tv”. Ma anche quello era un indizio di scarso valore, oltreché di dubbia provenienza».

A proposito di questo rinvenimento, il presidente della Corte d’appello, Francesco Ferri – uno dei pochi magistrati che ai tempi di Tangentopoli si ispirava alle lezioni di Alessandro Manzoni e dei fratelli Verri – osservò che se l’asta guida e molla era uno dei 48 reperti della Beretta che Pacciani aveva sotterrato in vari punti della campagna, logicamente il pm Paolo Canessa e la sua squadra di investigatori avrebbero dovuto disseppellirne altri 47, prima di avere in mano una prova: «Avete almeno trovato la mappa?», ironizzò Ferri.

I pezzi del quadro accusatorio che il pm Canessa aveva portato in Tribunale crollarono uno dopo l’altro. Fra i più importanti, c’era la testimonianza di Giuseppe Bevilacqua, detto Joe, un ex agente della «polizia criminale» e sovrintendente del cimitero americano dei Falciani.
Bevilacqua il 6 giugno 1994 doveva andare ad accogliere il presidente Bill Clinton per il Memorial Day. Gli avvocati del Consolato Usa lo avevano messo in guardia sulla giustizia italiana: Joe – così si faceva chiamare – avrebbe potuto mettersi in un pasticcio. Bevilacqua però aveva deciso di aiutare gli investigatori. Andò a processo e raccontò – in un slang tosco-americano che divertì molto la Corte di primo grado – ciò che aveva visto nei pressi della scena dell’ultimo crimine del Mostro, avvenuto a 300 metri dalla propria abitazione.

Il quotidiano La Repubblica aveva definito Bevilacqua il “super-testimone” del caso Pacciani. Nella registrazione audio della testimonianza del 1994 – reperibile su Radio Radicale – il direttore del cimitero dei Falciani non dice molto. Sostiene soltanto di avere visto la vittima francese Nadine Mauriot con un «bikini nero» mentre prendeva il sole sotto i pini di Via degli Scopeti, e poi – in un’altra occasione – Pacciani che camminava al limitare del bosco un chilometro più avanti, qualche giorno prima del delitto. Poca cosa per definirlo “super-testimone”. Più avanti, nella registrazione, Bevilacqua dice di non conoscere Pacciani. A quel punto, nasce una diatriba sull’altezza del Vampa che porta a un confronto fra accusatore e accusato. I due vengono fatti accostare. Confabulano. La scena si conclude con le parole di stupore dell’avvocato Bevacqua: «Sono molto simili, signor presidente!». L’avvocato di Pacciani evidenzia quanto possa essere difficile identificare due persone sconosciute con corporature quasi identiche. Quando poi Bevilacqua insiste nel sostenere di aver saputo degli omicidi sin dalla mattina successiva del delitto (la notizia non era stata ancora diffusa) si ritiene che la memoria del “super-testimone” faccia difetto. La cosa finisce lì. Altre persone che abbiano visto Pacciani vicino a un luogo del crimine non ce ne sono.
Dopo una prima condanna, il Vampa fu assolto: «Pacciani – scrive il giudice Ferri – vien condannato in primo grado senza le necessarie prove, sulla base di artifici dialettici, di palesi illogicità, di illazioni e di mere invettive». Dopo la sentenza d’assoluzione, Ferri si dimise da giudice in polemica con la magistratura e definendo l’intero processo a Pacciani “una colonna infame”.

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19 Maggio 2018 Stampa: Tempi – Storia di un mostro
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