“Dormivo e il mostro uccise mia madre…”

FIRENZE – “Sono vent’ anni che cerco di ricordare. Ma penso che il trauma sia stato tremendo”. Natalino Mele arriva puntuale al processo per i sedici delitti del mostro e non si chiude a riccio quando un avvocato di parte civile gli propone di sottoporsi a ipnosi. “Mah, potrei anche provare”, mormora. Ma è chiaro che deporre in aula lo costringe a rinnovare il dolore che ha segnato la sua vita. Si difende con una barriera di “non ricordo”. Natale Mele ha oggi 33 anni, di cui 20 passati in istituto. E’ un giovane bruno che sembrerebbe anche scanzonato se lo sguardo non fosse attraversato da lampi di sgomento. La Beretta calibro 22 del mostro gli ha strappato la madre, Barbara Locci. E forse Natale è l’ unico essere vivente che abbia visto il mostro in azione. Il 21 agosto del 1968 aveva 6 anni e mezzo e dormiva sul sedile posteriore della Giulietta dello “zio” Antonio Lo Bianco. Lo Bianco era un amante di Barbara. Si erano appartati dietro il cimitero di Signa. Furono uccisi da una Beretta calibro 22. L’ arma non venne mai trovata. Per il duplice delitto pagò il padre di Natalino, Stefano Mele. L’ omicidio fu interpretato come la vendetta di un marito stanco di tradimenti. Stefano Mele finì in carcere. La calibro 22 continuò a uccidere: nel ‘ 74 due fidanzati a Borgo San Lorenzo, poi nell’ 81 altre due coppie a Scandicci e a Calenzano, e ancora nell’ 82 a Montespertoli. Solo allora, non si sa se illuminati da una lettera anonima, gli inquirenti scoprirono che l’ arma era la stessa che aveva ucciso a Signa nel ‘ 68. Da quel momento, per almeno 7 anni, l’ inchiesta sui delitti del mostro fu dominata da un teorema: la soluzione del mistero affondava in quel primo delitto; Stefano Mele, i suoi familiari, i suoi amici, sapevano la verità; il mostro si celava fra di loro. Le indagini imboccarono la “pista sarda”. Tre persone furono arrestate e via via scagionate dai delitti commessi con la calibro 22. Una quarta venne a lungo sospettata. Il delitto del ‘ 68 fu rivoltato in tutti modi. Invano. L’ istruttoria si chiuse nell’ 89 con un proscioglimento generale. Chiuso il capitolo ‘ 68, decollò la pista che ha portato in carcere Pietro Pacciani. Oggi i suoi difensori fanno leva sui misteri che ancora circondano quel primo duplice omicidio per far vacillare le accuse contro Pacciani. Anche alcuni avvocati di parte civile sembrano convinti che la chiave del giallo si celi in quel primo delitto. E’ stato uno di loro, Luca Santoni Franchetti, a chiamare in aula Natalino. La testimonianza è breve: “Ero in macchina, mi svegliai. No, non ricordo gli spari. Cominciai a chiamare la mamma, ma lei non rispondeva. Uscii dal finestrino, mi sembra. Ero terrorizzato, cominciai a scappare. Vidi in lontananza una lucina e corsi in quella direzione”. Non ricorda altro. Neppure ciò che raccontò ai giudici fra l’ 82 e l’ 85, e cioè che il padre gli diceva che l’ assassino era stato Francesco Vinci (arrestato, prosciolto, ucciso misteriosamente l’ estate scorsa), e che gli aveva fatto anche un altro nome. “Mio padre non parlava mai del delitto”, taglia corto. “Sarebbe disponibile a sottoporsi a ipnosi per ricordare?” gli chiede l’ avvocato Patrizio Pellegrini di parte civile. “Mah, posso anche provare”, si stringe nelle spalle Natalino. Il presidente Enrico Ognibene è scettico: “Qui non si capisce bene se il teste non ricorda o dice di non ricordare. Ha una memoria settoriale. C’ è la sensazione che non tutto sia liscio”. La corte deciderà nei prossimi giorni sia sull’ ipnosi sia su altre istanze della difesa che vuol far entrare nel processo anche le indagini sulla pista sarda. Pacciani ha deciso di mostrare le unghie. Gli avvocati Rosario Bevacqua e Pietro Fioravanti hanno chiesto al tribunale il sequestro del volume “Un uomo abbastanza normale”. In libreria da giovedì, è il diario delle indagini scritto dal vicequestore Ruggero Perugini, ex capo della Squadra antimostro. Il libro, sostengono gli avvocati, può suggestionare la corte che deve giudicare Pacciani e inficiarne la serenità. “Quello gli è Caino che ammazza Abele”, ha ruggito ieri Pacciani, infuriato contro Perugini: “Che bruci all’ inferno con il suo libro”. E la ventisettesima udienza ha portato anche un punto a suo favore. Il perito chimico Giancarlo Mei ha escluso che il proiettile calibro 22 trovato nell’ orto di Pacciani sia rimasto interrato più di 5 anni. Pacciani fu arrestato per violenza alle figlie nel maggio ‘ 87. Il proiettile fu trovato il 29 aprile ‘ 92. Questo, secondo la difesa, proverebbe che non è stato Pacciani a perdere quel proiettile nell’ orto.

di FRANCA SELVATICI

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9 Luglio 1994 Stampa: La Repubblica – “Dormivo e il mostro uccise mia madre…”
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