3 Marzo 1998, 62° udienza, processo, Compagni di Merende Mario Vanni,  Giancarlo Lotti e  Giovanni Faggi per i reati relativi ai duplici delitti del MdF e Alberto Corsi per favoreggiamento.

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Avvocato Antonio Mazzeo

Presidente: C’è Lotti? Ah, eccolo. Sì. Vanni presente. Il difensore presente. Mi sostituisce anche gli altri che mancano. Fenies… Ah no, c’è, c’è.

Avv. Sigfrido Fenyes: (voce non udibile)

Presidente: Scusi, eh.

Avv. Sigfrido Fenyes: Ho cambiato posto.

Presidente: Io guardavo lì.

Avv. Sigfrido Fenyes: Ho lasciato…

Presidente: Bene, allora ci siamo tutti. Prego, avvocato Mazzeo, può iniziare, grazie. Quando vuole può interrompere, me lo dice. Bene.

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Grazie, Presidente. Signor Presidente, Signori della Corte, nella lunga esposizione del rappresentante della pubblica accusa, tra le tantissime cose che non ho condiviso ce n’è una che mi ha addirittura turbato. Ed è stata il continuo, insistito, iterato richiamo allo stato d’animo che voi dovreste avere nel momento in cui vi accingete a giudicare. Ricorrenti sono state le parole del Pubblico Ministero: “voi dovete essere tranquilli”, “voi dovete essere sereni”, “qui c’è una confessione”, “voi dovete soltanto” – “soltanto”, l’avverbio lo ha usato il rappresentante dell’accusa – “dovete soltanto verificare la credibilità del dichiarante”. Beh, io non credo che lo stato d’animo, la condizione di spirito di un Magistrato, di un Giudice, che si accinge a prendere in considerazione opzioni di pena come quelle che vi sono state richieste con riferimento al mio assistito debba essere appunto di tranquillità, di serenità. E in questa mia convinzione sono confortato proprio da lei, Presidente, che in un’udienza passata, quando gli animi si erano un po’ accalorati nella foga della difesa delle rispettive tesi, ha rivendicato al Giudice – lei lo ricorderà – la sofferenza, il dolore. Il mio vecchio maestro diceva: il processo è dolore, il processo è già la pena per certi versi, anche per il Giudice; il dolore per il giudicante; la sofferenza della ricerca della verità reale. Lo dico per i Giudici non togati, noi sappiamo che, in base alla nostra Carta Costituzionale, le uniche due regole di giudizio a cui deve fondamentalmente attenersi il- Magistrato sono: il suo libero convincimento, bilanciato da una seria e logica motivazione, e la ricerca della verità reale al di là di ogni apparenza, anche la più sfacciata. Dice il Pubblico Ministero, rivolto a voi, Signori Giudici, pagina 20 della sua requisitoria: “Non dobbiamo affannarci a costruire” – non dobbiamo affannarci – “a costruire, a dedurre, a vedere, a capire.” “Non dobbiamo affannarci a capire”? “No” – dice – “la situazione è chiara, è oggettivamente chiara. Dobbiamo solo” – eccolo qua 1’avverbio – “verificarla, riscontrarla.” Beh, io ho molta comprensione, soprattutto per i Giudici popolari, per i signori con la fascia tricolore a tracolla, perché si tratta di persone che non hanno scelto nella loro vita di fare un lavoro che significa decidere il destino delle persone. Solo due tra voi hanno scelto questa professione e io sinceramente non li invidio. Io non ne sarei capace. Ma gli altri hanno scelto di fare altri lavori, non questo che è più terribile di tutti, è il più difficile di tutti. E si ritrovano qui da circa un anno, magari si saranno anche chiesti in qualche momento, specie in questi ultimi giorni in cui c’è stata questa raffica di argomentazioni giuridiche da parte dei vari difensori, si saranno chiesti ‘ma io che ci sto a fare qui? Ma perché sono stato chiamato io? Ma perché il Legislatore ha pensato, ha immaginato, ha voluto che per i delitti più gravi, che offendono particolarmente la comunità, ci debbano essere dei Giudici non professionisti, dei Giudici che non hanno studiato diritto, che non hanno la laurea in Legge. Che di fronte a concetti come “riscontro oggettivo”, “prova diretta”, “prova indiretta”, “confessione”, “chiamata di correo”, “indizio”, “prova”, sono persone che devono fare uno sforzo enorme di comprensione. Sarebbe come se a me mettessero in mano un bisturi e dicessero: ‘vai, fai un’operazione chirurgica’. No, signori, io sono convinto, dopo aver pensato come voi nei primi anni della mia professione, in qualche misura, sono convinto invece che la vostra, qui, sia una presenza decisiva, perché voi rappresentate – come del resto lo rappresentano ovviamente, ancor più, e comunque allo stesso modo i Giudici togati – l’esigenza di buonsenso. Del buonsenso comune; quello non si impara a scuola. È quella cosa che aiuta a distinguere il vero dal falso nella vita quotidiana, di tutti i giorni, di ciascuno di noi. Il Legislatore ha voluto delle menti libere, vergini. Libere da che cosa? Da architetture concettuali, da tesi culturali, di cui a volte chi, compreso chi vi parla, diciamo ha studiato invece queste cose, si fa prendere, si fa rapire e magari perde di vista la verità. Eccola qui la necessità anche della vostra presenza qui. E quindi, quanto lontana dalla vostra funzione altissima, difficilissima, nobilissima, è l’invocazione del Pubblico Ministero: “non dobbiamo affannarci a capire.” Voi siete qui esattamente per il contrario, la vostra funzione è proprio quella di capire, invece. Al di là di ogni possibile dubbio – come si dice – al di là di ogni evidenza più sfacciata. Per un’esigenza morale, prima ancora che giuridica. Perché decidere del destino delle persone non è una cosa… è la cosa più terribile, come ho detto prima, che possa capitare. Perché voi non siete dei notai che dovete ratificare l’operato degli inquirenti, che dovete dire – come dice il notaio – la firma è autentica. Il vostro operato questa volta, a differenza di tutte le volte passate, di ciò do atto al Pubblico Ministero che l’ha riconosciuto, è stato un operato immune da vizi. Siete stati bravissimi, vi autocelebriamo. Finalmente avete scoperto la verità. No, non siete chiamati qui per questo. Voi siete chiamati qui per giudicare Mario Vanni, che è tutta un’altra cosa. Non per fare quindi i notai, ma per fare i Giudici, perbacco! E, allora, quando si dice: “non dovete affannarvi a capire, la situazione è chiara, c’è una confessione”, si introduce un primo concetto giuridico e del quale bisogna parlare. Perché io ho avuto la sensazione, durante la lunga, articolata, insistita, ripetuta nei concetti, come è giusto da parte del Pubblico Ministero, che egli avesse in mente più – in buona fede, ovviamente -più il concetto civilistico di confessione, che il concetto penalistico. E mi intendono i Giudici togati. Nel diritto civile la confessione, dice la legge, è una prova legale. Cioè a dire è una prova la cui efficacia è precostituita dalla legge. Cioè una delle parti in un giudizio civile – una causa, un risarcimento danni, ereditaria, quello che vi pare – dichiara qualcosa contro se stesso e il Giudice risolve in questo caso la lite, risolve la controversia; prova legale, la cui efficacia è precostituita dalla legge. Ma qui siamo in un campo completamente diverso e se c’è una prova, un mezzo di prova che è veramente delicatissimo – e queste sono parole della Suprema Corte di Cassazione – mezzo di prova delicatissimo è proprio la confessione. Io richiamerò moltissimo la Corte Suprema di Cassazione, perché è il Giudice dei Giudici; perché è il Giudice che giudicherà, molto verosimilmente, la vostra sentenza e che dirà se la vostra sentenza è conforme a legge, oppure se la vostra sentenza è contro la legge, ha violato la legge. E la linea di demarcazione tra contro la legge o secondo la legge è rappresentata dall’esatta applicazione di questi concetti giuridici, accessibilissimi a chi vuole fare esercizio di buonsenso comune, cioè a chi vuole lavorare. E quindi, dicevo, la confessione non è quella specie di meccanismo automatico o semiautomatico che vi ha descritto il Pubblico Ministero. È un mezzo di prova delicatissimo, perché le motivazioni che possono indurre, in un giudizio penale, una persona ad andare in gualche modo contro natura, accusandosi – perché 1’’istinto primordiale, naturale dell’uomo è quello di difendersi, non di accusarsi, è quello di negare le proprie responsabilità, no di ammetterle – quindi ci troviamo già di fronte a una situazione in cui, ecco, il giudizio, l’attenzione deve essere particolarmente sveglia. C’è uno che confessa. Beh, la prima regola, la prima regola vorrei dire pratica, di buonsenso comune non di giudizio positivo, è di dire: ma perché confessa questo? Chiediamoci perché. Se lo chiede molto bene, se l’è già chiesto dai tempi dei tempi il Legislatore, che ha previsto infatti nel Codice penale il reato di autocalunnia: articolo 369 del Codice penale. L’autocalunnia è la fattispecie in cui c’è un soggetto che falsamente confessa di essere colpevole di un gualche reato, falsamente. Evidentemente questa situazione è così comune, va bene, tra gli uomini, che il Legislatore l’ha previsto, questa, come figura autonoma di reato contro l’amministrazione della Giustizia. Perché chi confessa falsamente di aver commesso un reato, in pratica intralcia il libero e regolare corso della Giustizia. Perché magari distoglie l’attenzione degli inquirenti e dei Giudici dal vero colpevole. Quali sono le motivazioni che possono spingere quindi una persona a confessarsi colpevole? Ma un’esemplificazione di confessioni dovute a infermità di mente, altro squilibrio psichico, a fanatismo, ad auto ed eterosuggestione, a ragioni di lucro, a spirito di omertà. Il Guardasigilli, che commenta l’articolo che riguarda l’autocalunnia – Codice penale attuale, quello del 1930 – nella relazione ministeriale sul progetto del Codice penale dice, testuale: “Ho adoperato la parola confessione” – cioè chi confessa falsamente, autocalunnia – “riferendomi al valore formale di tale atto, che in senso tecnico non richiede punto, come indispensabile requisito, la veridicità nel diritto processuale. Infatti, la dichiarazione mediante la quale una persona afferma di essere autrice di un reato, si chiama confessione, sia vera o falsa nel suo contenuto.” Noi siamo qui per stabilire se la confessione che riguarda questo processo è vera o falsa. Poi c’è la chiamata di correo, parleremo di quella. Perché se non si motiva adeguatamente, congruamente, logicamente, consequenzialmente, prendendo a base il contenuto di questa confessione, eh, beh, si può fare una sentenza sbagliata sul piano formale, oltre che sul piano sostanziale, che sarebbe ancora peggio. La Corte Suprema di Cassazione, a proposito della confessione, in una recentissima sentenza, del 1996 – 26 settembre ’96, 8724, Mastro Piero – ribadisce i concetti che vi ho appena esposto e la distingue appunto dalla chiamata in correità. Perché esiste un articolo del nostro Codice di procedura penale, lo avrete già sentito, ve lo hanno nominato, è il 192, che detta alcune regole di giudizio, con riferimento alle prove in generale, alle prove dirette; agli indizi, usa il plurale perché un indizio solo comunque non basterebbe mai per la legge a fondare un giudizio di condanna; e poi distingue, tra il comma 2 e il comma 3 dell’articolo 192, la chiamata in correità dalle altre prove. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo:  Siccome non l’ha letta nessuno la norma, nessuno, io lo faccio invece, soprattutto per i Giudici popolari, perché bisogna partire prima di tutto dalle norme di legge, io penso. L’articolo 192, “valutazione della prova”, tema fondamentale con cui vi confronterete, dice: “Il Giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.” Fin qui siamo tutti d’accordo. “Comma 2. L’esistenza di un fatto” – per esempio la colpevolezza del Vanni – “non può essere desunta da indizi” – usa il plurale, notate – “a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti.” La Suprema Corte di Cassazione dice che devono essere anche certi, ovviamente, perché se non fossero certi non sarebbero indizi. Poi parleremo della differenza che passa – e qui è vocabolario della lingua italiana – tra indizio, per esempio, e sospetto; che differenza c’è? Tra indizio e suggestione; tra indizio e ipotesi di lavoro di un inquirente, magari non verificata; fra indizio e immaginazione; tra indizio e desiderio. Il desiderio di chi vuole vedere una cosa, vuole vedere quella cosa e la vede. Ma non è quello che è cioè che vede: è ciò che vuole vedere. Ciò che distingue fondamentalmente – sul piano del buonsenso comune, poi leggeremo anche… lo dice la Cassazione – l’indizio da tutte queste altre cose che vi sono state, a raffica, illustrate invece e nessuna di queste era indizio, è che l’indizio deve essere certo. E che vuol dire certo? Che l’indizio deve essere un dato di fatto, storico. Per esempio, che ne so: il coltellaccio da cucina trovato nel forno della cucina del Vanni. Questo è un dato storico: c’è un coltellaccio da cucina. Deve essere certo l’indizio, perché sennò rimane un sospetto, una suggestione. L’inquirente arriva nella cucina del Vanni, vuole trovare un riscontro, una conferma a una dichiarazione e vede nel coltello, dà a quel coltello un significato che, sotto un profilo di certezza giuridica e sostanziale di per sé non ha. Che significa certo? Che deve portare verso una direzione unica. Che può essere spiegato soltanto in una maniera: già se sono due le maniere per cui può essere spiegato quel dato storico, non è più un indizio, non ne dovete tenere conto. Perché si annida, in questo caso, il pericolo gravissimo dell’errore giudiziario. Perché se esiste l’esigenza – e apro una piccolissima parentesi – di assicurare i colpevoli alla Giustizia, perbacco, riguarda tutti noi; esiste un’altra esigenza, che forse è superiore, lo lascio alla vostra riflessione, che è quella di non condannare gli innocenti. Perché in questo modo si commettono due ingiustizie: l’ingiustizia verso l’innocente che si condanna e l’altra ingiustizia verso tutti noi, perché si impedisce in questo modo che le indagini continuino e che vadano forse a colpire il vero colpevole. Valutate voi quali di queste due esigenze è più importante, sul piano morale e sul piano giuridico. Si parlava quindi di indizi. “L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti“. E poi veniamo al tema centrale di questo processo: la chiamata di correo. Questa è la legge eh, quindi nessun commento. “Le dichiarazioni rese dal coimputato” – Lotti in questo caso – “del medesimo reato, o da persona imputato in un procedimento connesso” – eccetera, eccetera – “sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.” Che vuol dire “sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”? Vuol dire che il Legislatore ha dettato, a proposito della chiamata in correità, a differenza degli altri mezzi di prova – compresa la confessione – ha dettato una positiva regola di giudizio. Significa che voi dovete attenervi a questo, cioè a dire: c’è una presunzione relativa di non credibilità intanto del chiamante, del dichiarante: del Lotti. C’è una presunzione relativa di non credibilità: tu mi stai chiamando in correità qualcuno? Tu stai accusando qualcun altro, oltre che accusare te stesso? Intanto io non ti credo, dice la legge. Lo dice la legge. Io non ti credo. La tua dichiarazione la posso prendere in considerazione soltanto se viene corroborata, come si dice, unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino 1’attendibilità. Allora, prima regola di giudizio: presunzione relativa di non credibilità del chiamante. Non c’è versi: Lotti, intanto te per me stai dicendo delle bugie. Poi, andiamo a vedere se ci sono dei riscontri oggettivi che confermino l’attendibilità di quello che tu dici. A quel punto allora si valuta e può diventare una prova piena a tutti gli effetti. Distinzione quindi tra confessione e chiamata in correità. Questo è un tema che anticipo sotto un profilo strettamente giuridico. Poi lo illustrerà molto più approfonditamente, con riferimento poi ai fatti di questa causa, il mio collega Filastò. Dice la Cassazione in quella sentenza 26 settembre ’96, 8724: “La valutazione delle dichiarazioni confessorie…” Quindi qui c’è una confessione e una chiamata in correità, no? C’è Lotti che dice: io sono colpevole, però è colpevole anche quell’altro. “La valutazione delle dichiarazioni confessorie degli imputati, ai fini del giudizio di responsabilità a suo carico, deve essere condotta e motivata in base ai criteri elencati nel I comma dell’articolo 192.” Quando si dice appunto: “Il Giudice valuta la prova dando conto, nella motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.” Niente riscontri oggettivi, no, necessariamente. Una confessione può essere ritenuta valida, vera -vera, parliamo terra terra – al di là dei riscontri oggettivi, semplicemente in base a una valutazione congrua, evidentemente, logicamente corretta, va bene, della credibilità intrinseca e dell’attendibilità intrinseca – non estrinseca, senza riscontri – di colui che si confessa. Per esempio: una confessione che risulti evidentemente frutto di un catartico sentimento di espiazione – e questo certamente non è il caso del Lotti, vero – quella potrebbe essere considerata di per sé, senza bisogno di riscontri, una prova sufficiente a fondare la condanna di chi? Di colui che si confessa colpevole, cioè a dire del Lotti, per tornare a noi. E questo dice la Cassazione in questa… per distinguere dalla chiamata in correo. Dice: “Va valutata in base ai criteri indicati nel I comma dell’articolo 192 del Codice di procedura penale, poiché essa si distingue nettamente” -dice – “dalla valutazione delle contestuale chiamata in correità effettuata dal medesimo ‘ “ . imputato; per la cui valenza probatoria, secondo il disposto del III comma” – abbiamo detto viene valutato unitamente agli altri elementi di prova, eccetera – “non basta” – nella chiamata in correità – “la credibilità dell’autoincolpazione in quanto tale, ma occorrono riscontri esterni che suffraghino l’assunto accusatorio del confidente. Ne consegue che la confessione può essere posta a base del giudizio di colpevolezza, nell’ipotesi in cui il Giudice ne abbia favorevolmente apprezzato” – appunto – “la veridicità, la genuinità, l’attendibilità, fornendo le ragioni per cui debba respingersi ogni intento autocalunniatorio”. Ci può essere la falsa confessione, autocalunnia; un mitornane. “O di intervenuta costrizione del soggetto.” E questa sentenza, guarda un po’, la Cassazione l’ha fatta in applicazione di detto principio: “La Corte ha rigettato il gravame” – dice – “con il quale il ricorrente” – colui che aveva confessato e chiamato in correità – “lamentava che, mentre la sua confessione era stata ritenuta, dal Giudice di merito, prova” – la sua confessione – “di colpevolezza nei suoi confronti, non era stata nel contempo considerata sufficiente a fondare il giudizio di responsabilità dei coimputati”, di quelli che lui aveva chiamato in correità. Perché sappiamo che i criteri di valutazione e di giudizio delle due prove sono diversi. E quindi, confessione: strumento di conoscenza della verità delicatissimo, perché si tratta di entrare nell’anima di chi parla e, come diceva quel signore: “quello che passa nel cuore dell’uomo, l’uomo stesso quasi mai lo conosce”. Quindi immaginate la difficoltà del giudizio sulla veridicità, sull’attendibilità, sulla genuinità di una confessione. Peggio che mai quando ci si avventura, voglio dire, sul terreno minatissimo della chiamata in correità. Terreno ancora più minato, in questo scorcio storico, in questa nostra fine di secolo, perché ormai è entrato nel linguaggio comune il concetto di “legislazione premiale”; anche i non tecnici ne avranno sentito parlare. Ci sono una congerie di leggi, di norme che in sostanza, per far fronte a un’emergenza – prima l’emergenza terroristica e poi l’emergenza mafiosa – hanno favorito, diciamo così, le chiamate in correità, hanno favorito il cosiddetto “pentitismo”. Legislazione premiale: tu che sei affiliato, tu che sei all’interno dell’anti-Stato, parla. Pentito è un termine che ha a che fare con il sentito catartico di autoincolpazione, qui non c’entra nulla. Parla. Io Stato mi occupo dei comportamenti, non delle coscienze. A me interessa che i reati non si compiano, a me Stato. Quindi tu parla e sarai premiato. Poi arriveremo a illustrarlo questo aspetto. Però, naturalmente, questa è una vicenda che, sotto il profilo del Giudice che deve giudicare se la chiamata in correità è vera, è veridica, se veramente quello che vien chiamato è colpevole, gli complica la vita al Giudice questa cosa. Perché quando, fino a qualche tempo fa, Corte Suprema di Cassazione, Giurisprudenza pacifica e costante, diceva che fra i requisiti della attendibilità intrinseca della chiamata in correità ci doveva essere il disinteresse, mi insegnano i Magistrati togati che ora, da qualche anno, il disinteresse, con sano realismo, i Giudici ormai non lo considerano più un requisito della genuinità e della intrinseca attendibilità della chiamata di correo. Perché, insomma, è una contraddizione in termini, no? Con una legislazione premiale gigantesca – che vi verrà illustrata puntualmente – che in sostanza si risolve in una esenzione dalla pena per il chiamante in correità, un Giudice che va a dire che tra i requisiti che cerca nel chiamante in correità ci deve essere il disinteresse, beh, insomma, è retorica, no? Dice una cosa falsa. E quindi, con sano realismo le ultime sentenze, diciamo dall’85 in poi, non parlano più del disinteresse. Tra i requisiti che deve valutare, la cui esistenza… la parte colpevole, che si dichiara colpevole, chiama in correità gli altri: non mi interessa se tu sei disinteressato, oppure no; guardiamo altre cose. Ma questo inquina, no? Rende ancora più complicato il vostro lavoro. Rende più complicato il vostro lavoro, ma la complicatezza, diciamo, del vostro lavoro non deve mai tradursi in rischio di un’ingiustizia nei confronti del chiamato. Pare evidente questo. La chiamata in correità. La chiamata in correità. Prima le chiamate in correità, nei secoli passati, venivano a volte provocate dalla tortura, no? Tortura come strumento dell’inquisizione. Chissà perché c’era questo concetto: mah, io ti torturo e poi qualcuno chiamerai. Mi viene in mente sempre la peste di Milano del 1630, quella narrata da Alessandro Manzoni nella “Storia della colonna infame”. Strano costume dei nostri antenati giuristi. Provocare le confessioni, le chiamate in correità magari torcendo il piede, o pestando l’alluce, o altre amenità di questo genere, al disgraziato che gli capitava in mezzo. Noi siamo civili, invece. Noi abbiamo fatto moltissima strada da allora. E ‘ intervenuto nel frattempo Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene”; è stata abolita la schiavitù. Che ne so, che altro c’è stato? Adesso c’è la legislazione premiale, però. C’è un giurista – sicuramente noto ai Giudici togati – Tullio Padovani, che ha scritto un articolo che si chiama “La soave Inquisizione”. Il titolo è bellissimo, perché illustra questo aspetto: come si può coartare la volontà di un soggetto da cui ci si aspetta delle dichiarazioni – e già il fatto che ci si aspetti delle dichiarazioni è sbagliato, ma lasciamo da parte – si può coartare con la violenza e si può coartare invece blandendolo, si può coartare con le offerte: “La soave Inquisizione”. Il bastone e la carota, per dirsela in termini… Prima si usava il bastone, adesso forse, per esigenze rispettabilissime di tutela dell’ordine democratico, lo Stato in qualche modo si tura il naso – che questa è l’operazione che ha fatto il Legislatore – si tura il naso e noi aderiamo a questo, in qualche misura. Eh, signori, però qui, questo non è un processo di… Qui, sì, non c’entra la mafia, non c’entra il terrorismo. Si sta giudicando dei delitti comuni, orrendi. La cronaca giudiziaria forse non ne ricorda di uguali. E in qualche modo questa legislazione premiale si è inserita, attraverso una previsione troppo ampia forse del Legislatore, dell’ipotesi in cui sì debba essere in programma di protezione, o cose di questo tipo, per cui si arriva a un assurdo – già illustrato prima da qualche altro collega – per cui un soggetto che da due anni si dichiara colpevole di 16 omicidi non si è fatto neanche un giorno di galera. Insomma, voglio dire, è inutile poi girare intorno e dire: mah, la legge lo consente. Questo turba, urta la coscienza di chiunque, non c’è niente da fare. È un dato con cui ci dobbiamo confrontare. Ma è una cosa che si è insinuata in un contesto normativo che in fondo non era stato pensato per delitti di questo genere, non ce lo nascondiamo. La sensibilità dei Magistrati togati, in particolare, non può non avere presente questo aspetto. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo:  Che c’è qualcuno che fruisce di cose che forse non sono state pensate per lui. E comunque è così. Ma allora, però, siccome voi siete la legge oggi; qui, voi siete la legge, e voi dovete giudicare se è vero quest’uomo o se è falso. Se è vero, quando dice che lui è colpevole, magari; e se è falso, quando dice che sono colpevoli quegli altri. Eh, non potete andare contro la legge, non potete andare contro la legislazione premiale, è inutile stare a fare il Don Chisciotte contro i mulini al vento. Io ve la illustro soltanto, ma tocca a voi dire che questo è credibile, tocca a voi dire che questo qui è sincero. E ce ne vuole, eh. Perché, per illustrare brevissimamente quelle osservazioni di cui vi parlavo, di quel giurista Padovani e “La soave Inquisizione”, dice: “È di questo autore l’ammonimento circa i rischi legati all”utilizzazione di uno strumento di pressione sull’imputato, sia di carattere coercitivo, sia di carattere premiale. È possibile infatti che l’imputato, per sfuggire alla coazione” – la tortura mi viene in mente, ma noi siamo civili, eh – “o per guadagnare la ricompensa, che è la stessa cosa, fornisca informazioni false, o effettui chiamate di correo calunniose. Carmignani assimila poi il meccanismo premiale alla tortura. Addirittura, questo, lo assimila alla tortura. Il contenuto è del tutto diverso, ovviamente. Non la minaccia, ma a speranza; non la minaccia del dolore, ma la speranza del premio; non la violenza, ma la mitezza. E infatti, se è mitezza maggiore di quello che viene elargita, diciamo, da qualche tempo al chiamante in correità che viene coccolato come una gallina dalle uova d’oro che le fa poi periodicamente, no? Secondo le situazioni. “La progressione delle rivelazioni…”, è stato detto in questo processo. Per cui, chi chiama in correità non è testimone, quindi non giura di dire la verità, quindi non corre il rischio di prendersi una condanna per falsa o reticente testimonianza – perché non è testimone – e quindi è al sicuro da questa cosa. Però, a maggior ragione, secondo una certa logica distorta, potrebbe dire quello che gli pare, e noi dobbiamo stare li a bocca aperta a credergli, come oro colato. È una condizione assurda, questa. Che strumento è, questo, per arrivare a capire qualcosa? A fare quell’esercizio di capire, dedurre, vedere, costruire, che ci viene negato dal Pubblico Ministero e che invece è la funzione che vi tiene qui da un anno. E quindi, dicevo, questo autore. Dice: “Assimila, poi, il meccanismo premiale alla tortura”, dice. “Il contenuto è del tutto diverso: non la minaccia, ma la speranza; non la violenza, ma la mitezza. Ma la logica è la stessa, ispirata all’intervento sull’imputato che viene sollecitato a trasformarsi in mezzo di prova. Con questa differenza soltanto: che la tortura aspira a convertire in criterio di verità il dolore; e la impunità ispira ad ottenere lo scopo medesimo col piacere. Che la prima cerca la confessione; la seconda l’accusa.” Io ti torturo perché tu confessi; io ti do un premio perché tu mi accusi quegli altri,. L’una, dannosa a chi la emette; l’altra a un terzo dannosa. Questo Carmignani è un signore dei primi anni dell’800, addirittura, guarda un po’. Quanto difficile, quindi, il percorso del Magistrato che si ritrova, per sua disgrazia – ma per maggior disgrazia degli accusati – in questo scorcio di secolo a dover fare, tenere un percorso logico e morale, vorrei dire anche, che deve fare i conti con tutte queste insidie che si annidano in una chiamata in correità. E che la chiamata in correità, poi, va a diventare in una specie di aritmetica delle prove, concetti anche qui studiati quando si studiava la storia del diritto, Medioevo, l’aritmetica delle prove: “Unus testis, nullus testis”. Un teste non vale niente. La meccanica delle prove, cioè la confessione per cui sei colpevole. E non è così, è molto più complicata la cosa. Sennò perché sono passati otto secoli? Per confrontarci un’altra volta con una ipocrisia? Ora noi siamo tranquilli, non ci vergogniamo più, non si usano più nella nostre carceri le tenaglie. E però si usano dei sistemi che poi, nella sostanza, ai fini della ricerca della verità, equivalgono alla stessa cosa. Ma il vostro lavoro può essere fatto può essere fatto, può serenamente essere fatto. Può serenamente essere portato a termine. Stavolta si, lo uso io il termine “serenamente”, avendo come criterio un sano buonsenso comune, un tenere i piedi per terra, un valutare quello che vi sta succedendo sotto gli occhi come se fosse un qualche cosa che può succedere a voi. Un criterio, nell”arco della vostra vita. Pensate sempre questo: la disgrazia del Vanni potrebbe essere la disgrazia di ciascuno di noi, facendo i debiti scongiuri. Perché peggio di questa, penso, non se ne possa immaginare. Un amico di merende che, alla fine, si sveglia la mattina e ti accusa. Ecco perché il processo fa opera sempre di civiltà. Di civiltà senza aggettivi. Onestà intellettuale, onestà. Civiltà giuridica, civiltà. Proprio perché dà una indicazione, dice a tutti i consociati: state tranquilli, chi giudica è consapevole; chi giudica è uno di voi, e chi è giudicato è uno di voi. Io ho apprezzato, sotto un profilo strettamente letterario oserei dire, insomma, ecco, estetico, i tentativi commoventi del rappresentante della accusa di dipingervi quest’uomo come una belva umana, insomma, no? E secondo me lui non ce l’ha !,le physique du ròle”, come dicono i francesi. Poi ci si arriverà. Sai, Pacciani, in qualche modo ha un pedigree, era stato assassino, eccetera. In qualche modo, il lavoro, era un po’ più facile. Ma per il Vanni, il Pubblico Ministero ha dovuto penare, eh. Perché, voglio dire, dire che è uno… è un sadico, ha una personalità sadico-feticistica, perché va con le prostitute e gli garbano certe cose piuttosto che altre, è come paragonare un topolino ad un elefante, vero. Eccolo qui l’esercizio del buonsenso comune. Eccolo qui. Per questo siete chiamati. Perché quando non si esercita il buonsenso comune, tra l’altro c’è un rischio che coinvolge tutti noi, anche noi. Hitler disse una volta, badate se bisogna ricordarsi quello che ha detto quell’uomo. In sostanza disse una cosa che somiglia a questo: “Più grossa la spari e più difficile è smontarla.” Ecco, tante volte, nell’arco di questo processo, io mi sono trovato a confrontami con quella battuta. La famosa propaganda, no? eccetera. Più grossa la spari e più difficile è smontarla, guarda. Perché la follia, in qualche modo, è espansiva, no? Coinvolge. La logica, diciamo, di no che dice… tanto per fare un esempio, no, poi ci torniamo. Perché io citerò testualmente quello che è stato detto. La logica di uno che dice – e lo dice il Lotti e lo dice il Pucci. È l’unica volta che questi due si ritrovano d’accordo nel dire questa cosa. Poi, per il resto, come sarà illustrato analiticamente, non si sono mai trovati d’accordo su nulla – è sul movente dell’omicidio della povera Pia Rontini. Su quello, invece, sono stati chiarissimi. Ecco, tanto per fare un esempio del rischio in cui si incorre quando non si fa esercizio di buonsenso comune. Ve lo ricordate cos’hanno detto, Signori Giudici? Perché questa va anticipata, questa. Io volevo dirvela dopo, ma l’esempio va dato, che il rischio è quello del ridicolo, dell’assurdità comica. Il rischio in cui, più volte, siamo incorsi e stiamo incorrendo, forse. Approcci tentati dal Vanni con la Rontini: Lotti parla per la prima volta di questi approcci nel verbale del 9 aprile ’96. La ragazza avrebbe detto al Vanni – virgolette, queste parole, diciamo “Io, con te, un uomo anziano… puoi essere il mio babbo.” E Vanni reagisce dicendo al Lotti: “Quella ninfomane, quella scema. Perché ha detto a me così?” E Lotti: “Se è giovane, non può pensare a te.” Vanni allora disse che gliel’avrebbe fatta pagare. Vanni poi entra nel bar per fare la corte a questa povera ragazza. Quando tornò era arrabbiato: “Non doveva aver fatto conversazione come voleva.” Dall’incidente probatorio pagina 58 e 59, Volume I e pagina 54 del Volume II. Ora, di fronte ad una affermazione di questo tipo, dico, il critico, il giudice, il critico per eccellenza deve porsi un problema. Dice: ma. . . L’unico commento adeguato mi pare quello che ha fatto un giornalista. Cosa rara, perché, specie in questa vicenda processuale, i giornalisti sono per lo più limitati a trascrivere le notizie che filtravano dalle Questure e dalle Procure. E non hanno fatto opera di giornalismo. Io ho sempre pensato che “Mani pulite” potevano farlo soltanto i Giudici, in Italia… i giornalisti. Altrimenti in America c’è stato “Watergate”. Un Presidente degli Stati Uniti è andato giù per merito dei giornalisti. La corruzione l’hanno scoperta i giornalisti, in America. In Italia tocca ai Giudici, purtroppo per loro. Questo giornalista, invece, che si chiama Guarazzini ed è de II Giornale – un giornale che tra l’altro non leggo abitualmente – del 9 luglio del ’96 dice, commenta quello che vi ho letto. Cioè a dire che Vanni… seriamente quest’uomo, che all’epoca avrà avuto 60 anni, andava a cercare, a fare approcci, a fare la corte, a fare conversazione, a ritenere lui e Pacciani di poter, diciamo, proporsi, proporsi, come cavalier ser… Vediamo, come si può dire, non lo so – mi sembrano inadeguate anche le parole – nei confronti di una ragazza ventenne, va bene, commenta cosi, dice: “Proviamo con il movente reso noto ieri. Pacciani e il “vicemostro”, Vanni, uccisero per vendicarsi, perché rifiutati dalle ragazze che in precedenza avevano spiato in atteggiamenti intimi con i fidanzati.” Questo, ce lo sta dicendo il Lotti, ce lo ha detto anche il Pucci. “Credibilissimo” – dice il giornalista – “I due Casanova, entrambi aitanti sessantenni, con l’alito al Chianti e le panze rasoterra, non appena vedevano una bella ventenne fidanzata, gli si proponevano” – no? Eh, beh, certo, no? E che diamine – “certi di farla stramazzare perduta d’amore.” E noi siamo stati qui a sentire queste cose, eh. “Pia Rontini nell’84 non volle saperne e pagò l’affronto con la morte.” Eh? Eccolo qui il rischio, il rischio del ridicolo. Che cos’è il ridicolo? Il ridicolo è una inversione del buonsenso comune. Il ridicolo è una inversione del buonsenso comune. È quando noi non lavoriamo più col nostro cervello, ma vediamo non ciò che è, ma ciò che vogliamo vedere. Lo ha detto Bergson in questo bel libro che si chiama “Il Riso”, che non è commestibile, ma è il riso, ridere. E dice: “L’assurdità comica che cos’è? È una inversione del tutto speciale del senso comune. Essa consiste nel pretendere di modellare le cose su una idea che si ha e non le idee sulle cose che si vedono. Essa consiste nel vedere davanti a sé ciò a cui si pensa.” Il coltello nella cucina del Vanni. Quando sono entrati pensavano già qualcosa. Hanno visto ciò a cui pensavano, invece di pensare a ciò che si vede. Non hanno pensato ciò che hanno visto. “Restare a contatto con le cose” – dice questo filosofo, premio Nobel – “e con gli uomini vedere soltanto ciò che è e pensare soltanto ciò che è coerente… Coerente. Gli approcci sentimentali del Vanni con la Pia Rontini, vi sembrano coerenti? “Esige uno sforzo ininterrotto di tensione intellettuale.” Vi ricordate che vi diceva il Pubblico Ministero? “Non dobbiamo affannarci a capire.” Eh, no, proprio il contrario. “Esige uno sforzo ininterrotto di tensione intellettuale. Il buonsenso è proprio questo sforzo. È un lavoro. Ma staccarsi dalle cose e tuttavia percepire ancora delle immagini. Romperla con la logica e tuttavia unire ancora delle idee.” Romperla con la logica e unire le idee. La rompiamo con la logica e uniamo l’idea del movente dell’assassino della Pia Rontini dovuto al rifiuto agli approcci. Non è che un gioco. Vogliamo giocare? “O se si preferisce, pigrizia. L’assurdità comica ci dà dunque dapprima l’impressione di un gioco di idee. Il nostro primo movimento è , quello di associarci a questo gioco. E ciò allevia la fatica di pensare.” Esattamente quello che ci chiedeva il Pubblico Ministero: non dobbiamo affannarci a pensare; guarda, impressionante: “E ciò, allevia la fatica di pensare.” E invece, no. Perché il lavoro che non vi siete scelto – parlo ai Giudici non togati – di decidere del destino delle persone, perbacco, hai voglia se richiede la fatica di pensare, eccome!

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo:  Torniamo alla chiamata in correità. Con tutte le annotazioni e le connotazioni che ho fatto prima e che riguardano la tradizionale considerazione di questo strumento di prova estremamente cauta da parte dei nostri Giudici -Giudici di merito, Giudici di legittimità, quindi, i Giudici di merito è Cassazione – la figura dell’imputato testimone, figura ibrida, no? E quindi alcune definizioni, neanche troppo antiche, della chiamata in correità da parte di Giudici della Suprema Corte di Cassazione. “Fonte equivoca e malsicura.” Quindi, questo atteggiamento di razionale diffidenza verso la chiamata in correità. “Fonte equivoca e malsicura”, Cassazione, 23 gennaio ’84, Azzalin. “Fonte impura. Fonte di prova impura”, Appello di Roma 27 febbraio ’58, Piccirilli, “Dichiarazione proveniente da persona la quale mira, immancabilmente, a diminuire le proprie responsabilità.” Cassazione, 23 novembre del ’51, Spedicato. “Dichiarazione proveniente da una fonte non moralmente limpida e che è animata da un interesse.” Cassazione, 22 dicembre ’86, Alfano. “Prova gravata di sospetto.” Cassazione, 11 luglio ’89, Ferro. Così i nostri giudici, da sempre – io ho fatto una ricerca che va indietro di 50 anni, ma penso che se fossi andato a prima della guerra sarebbe stato lo stesso – così i nostri giudici, da sempre, con un atteggiamento di razionale diffidenza si sono posti di fronte a questo, chiamiamolo, mezzo di prova. E, proprio per queste ragioni, il nostro nuovo Codice di procedura penale, perché fino al 198 9, quando era in garante il vecchio Codice di procedura penale, c’era grande discussione in dottrina e in giurisprudenza se la chiamata in correità, proprio per queste sue connotazioni che ho illustrato, si poteva considerare valida, nuda o vestita. I Giudici togati ricorderanno: la chiamata in correità come deve essere? Nuda o vestita? Cioè a dire, è sufficiente l’esame della credibilità e della attendibilità intrinseca del chiamante, nuda, per considerarlo un mezzo di prova – e quindi comunque un esame va fatto, su questo – oppure deve essere necessariamente vestita? Cioè a dire ci vuole il famoso riscontro oggettivo. Cioè, ci vogliono elementi esterni che non provengono dal chiamante, che non siano autonomi i mezzi di prova sennò la chiamata in correità non servirebbe a nulla, se c’è già un mezzo di prova che accusa qualcuno; ma che siano delle indicazioni certe che possano suffragare. Nuda o vestita, la polemica, chiamiamola così, è stata superata brillantemente dal nuovo Codice di procedura penale. Perché quell’articolo 192 III Comma, che ho letto prima, lo dice in modo, detta ima regola positiva di giudizio, regola positiva di giudizio. Dico per i Giudici non togati che c’è una regola dove non si può prescindere. Perché, una sentenza che non tenesse conto di questa regola costituita a giudizio sarebbe già affetta da difetto di motivazione. Quindi, Cassazione. La regola positiva di giudizio è che la chiamata in correità può anche essere intrinsecamente attendibile, il chiamante in correità, l’accusatore, può anche essere credibile per una serie di validissime ragioni, ma se non ha anche un riscontro oggettivo, non bisogna neanche tenerne conto. Perché c’è una presunzione relativa di non credibilità, a proposito di questo mezzo di prova. Ecco, una delle massime che ho citato dice: “Dichiarazione proveniente da persona la quale mira, immancabilmente, a diminuire le proprie responsabilità. Ecco, Signori, questo sano realismo razionale di diffidenza voi ne avete avuto – proprio con riferimento a questo: “mira immancabilmente a diminuire le proprie responsabilità” – ne avete avuto la riprova in un sacco di occasioni, numerosissime occasioni, durante questa istruttoria dibattimentale. Proprio con riferimento al Lotti. Mira a diminuire le proprie responsabilità. Dice: “Ma io andavo con loro…” Il movente di Lotti, con riferimento a Lotti, è sempre rimasto galleggiante, a mezz’aria, sospeso. “Io ero costretto per due ragioni”, poi non si sa qual è quella prevalente, che ha detto entrambe le cose. “Io ero costretto perché Pacciani mi minacciava fisicamente.” Cioè, ‘io avevo una soggezione fisica nei confronti del Pacciani’, e poi dice contestualmente : “No, io ero costretto anche perché Pacciani mi aveva costretto a subire rapporti omosessuali e io temevo di essere svergognato presso la mia comunità.” E va bene, ma insomma, sono due cose che non… Poi, dice: ‘andavo lì, facevo il palo, non facevo il palo…’ Poi vedremo che, quando dice che fa il palo, lo fa in certi posti in cui è impossibile fare il palo, insomma. Tutto questo risponde proprio a questa valutazione che ha fatto il giudice, di legittimità, quando dice: ‘io devo stare attento di fronte alla chiamata in correità, perché chi chiama in correità mira immancabilmente a diminuire le proprie responsabilità’. Questo è successo, lo avete avuto sotto gli occhi, col Lotti. La progressione delle dichiarazioni e tutto il resto. Ecco. E quindi la necessità, proprio come regola positiva di giudizio, affermata dal III Comma del 192, sotto pena di andare contro la legge, se non se ne tiene conto, al di là della convinzione che poi uno si fa circa la colpevolezza o innocenza degli imputati, perché qui non siamo a fare giustizia sommaria, ma giustizia. Io non amo gli aggettivi, non esiste la giustizia sommaria, esiste la giustizia; non esiste l’onestà intellettuale, esiste l’onestà. Ecco. Quindi, dico, i riscontri. Dice: “Altri elementi di prova occorrono…” Quindi, “Altri elementi di prova che ne confermino 1’attendibilità.” Gli altri elementi di prova, la Suprema Corte ha avuto modo di spiegare in più occasioni che non c’è limite qui. “Altri elementi di prova”, può essere prova diretta, prova indiretta; può essere prova provata, indizi. Indizi, indizi. Uso sempre il plurale, perché lo usa il Legislatore. Non indizio, “Indizi certi, numerosi, gravi, precisi, concordanti.” I requisiti degli indizi. Anche gli indizi possono rappresentare riscontro. Sono stati chiamati, siete stati – voi – sommersi, anzi, vorrei dire, da una raffica di cosiddetti “indizi”, nella prima settimana delle discussioni. Da una raffica di cosiddetti “riscontri oggettivi”. Io molto sommessamente dico che non ho mai sentito usare la parola riscontro oggettivo e la parola indizio così a sproposito come in questo processo, mi si consenta. E non perché lo dico io, ma perché lo dice la Corte Suprema di Cassazione. E allora, ancora una volta, facendo esercizio di sano buonsenso, perché sono concetti con i quali facciamo i conti nella nostra vita quotidiana, eh; tante volte le scienze sembrano quasi delle mascherature verbali. Io non ho mai capito perché i medici, per esempio, si esprimono in un certo modo, no? Per dire che uno ha il mal di schiena, usano delle parole astrusissime. E, probabilmente, con riferimento agli avvocati, ai giudici, eccetera, i cittadini che non fanno questa professione, penseranno la stessa cosa. Tante volte sono mascherature verbali, eh, signori. Non ci impressioniamo. Una volta, questi avevano anche uno scopo: impressionare l’incolto, impressionare colui che non sa, per crescere ancora di più ai suoi occhi. Creare questa specie di reverenza puramente formale, fumosa. No, la differenza tra indizio, perbacco, e sospetto è chiarissima. Lo può chiarire chiunque. Come può chiarire chiunque la differenza tra imbrogliare e incastrare, per esempio. E, sicuramente in perfetta buona fede, il Pubblico Ministero, alterando il pensiero e le parole del Lotti, a un certo punto – poi vedremo – dice: ‘no, lui ha detto, a un certo punto, mi ha incastrato la Polizia’. No, ha detto: “Mi ha imbrogliato.” E siccome siamo in Toscana, e quando qui arrivai 30 anni fa rimasi colpito subito dall’estrema proprietà di linguaggio che avevano tutti, a qualsiasi livello, anche le persone più illetterate. Andavo a guardarle sul vocabolario le cose che mi sentivo dire. Non sbagliano mai. Qui è nata la lingua italiana. Quindi, un toscano, buono o cattivo che sia, che dice “imbrogliare”, vuol dire imbrogliare, vuol dire ingannare. Uno vi dice “incastrato”, vuol dire un’altra cosa. E lo vedremo. E quindi “qualunque elemento di prova”. Qualunque elemento di prova, anche indizi. Qui si è parlato soprattutto di riscontri che, nelle parole di coloro che hanno parlato, sarebbero indizi, sarebbero indizi. Esempi: questo carosello di macchine, va bene?, in prossimità dei luoghi dei delitti di Vicchio e di Scopeti; questa girandola di macchine, una due, bianca, nera, rossa, bianca, chiara, scura, in ore prossime a quelle degli omicidi, in luoghi prossimi a quelli degli omicidi; questo è un indizio. Non è un indizio, lo vedremo. Addirittura è passato per indizio la sensazione… correttamente il Pubblico Ministero ha detto: ‘io ve la do, così coni’è, ve la passo così com’è’, non ha avuto il coraggio – mi scusi – di chiamarlo indizio. La sensazione della povera Bartalesi, quando dice: “Ho avuto la sensazione che il Lotti nascondesse un segreto terribile.” Ohé, Signori, ma qui siamo in un processo, eh. Queste sono cose da romanzo di appendice. E che, si viene… Già il fatto che si dicano – me lo consenta il rappresentante dell’accusa – per me è improprio. 0 che, si va avanti con le sensazioni? Lui ha dato un magnifico esempio di sensazione che non è indizio, per esempio. Però, intanto, no: la calunnia è un venticello, diceva quel ritornello de “Il Barbiere di Siviglia”, che, piano piano, monta monta monta. Le parole sono frecce, eh, si dice nella Bibbia. Parole come frecce. Dice Sartre: “Le parole sono come le pistole cariche.” E vero, eh. Ma voi dovete guardare dietro le parole; non vi dovete fermare neanche alle mie di parole. Meno che mai a quelle dell’accusatore. Perché c’è sempre una presunzione di innocenza. In dubbio prò reo, si diceva. Anche dai nostri antichi, che noi diciamo che erano incivili perché usavano la tortura fondata sul dolore. Noi adesso usiamo la tortura fondata sul premio. Guarda quanti passi che ha fatto il Diritto. Quindi, dico: la differenza che passa fra l’indizio e il sospetto; tra ciò che è e ciò che si vuol vedere. E ce lo dice la Suprema Corte di Cassazione. Dice: ‘Guardate, che il riscontro alla chiamata in correità, certamente che può essere rappresentato da indizi’. Perbacco! Prova indiretta. Che cos’è l’indizio? E’ un fatto, un dato storico. Che ne so, il coltello da cucina del Vanni; può essere un indizio, eh. Può, può, attenzione! E’ un dato storico. Sono entrati in cucina e hanno trovato un coltello. Hanno trovato un coltello. Punto. Lo hanno trovato nel forno. Punto. Fin qui hanno registrato dei dati storici. C’era un coltello da cucina. Beh, va be’, uno potrebbe obiettare: oh, in tutte le cucine ci sarà un coltello da cucina. Sì, dice, ma questo era nel forno, eh. E allora subito si sono insospettiti. E qui hanno fatto il salto logico, anzi, illogico, che li ha portati alla conclusione sbagliata. Non era un indizio. E perché non è un indizio? Perché questo dato storico, per poter essere un indizio, dice la Corte Suprema di Cassazione, dice la Giurisprudenza – costante, che è riflessione, che è ragionamento, che è lavoro e che è uso del cervello – dice: l’indizio deve essere certo, perbacco! Sennò come lo distinguo io da un sospetto? Da ciò che tu desideravi, da una suggestione, da una immaginazione? Deve essere certo. Che vuol dire “certo”? Che si può spiegare solo in un modo, uno. Bisogna avere una direzione unica. Deve essere suscettibile di una interpretazione univoca. Certo e univoco. E, ancora una volta, non lo dice il sottoscritto che varrebbe meno di niente, ma lo dice la Giurisprudenza, costante, che è esercizio di ragione, eh, attenzione. La Giurisprudenza… non è che sono i giudici cattivi, la Cassazione è cattiva, la Cassazione mette i bastoni fra le ruote alla Giustizia. Ohé, non scherziamo, eh. Dico, i Giudici e la Giurisprudenza e le sentenze sono il massimo sforzo di buona fede che noi, poveri uomini con le nostre povere forse, facciamo per arrivare alla verità e per non combinare più guai di quelli che solitamente poi combiniamo e che ci portano in queste aule. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo:  E questo la Cassazione, eh. Perché a furia di vedere i film americani – me lo perdoni, il Presidente, non mi rivolgo a lui, dico – dove si vedono sempre i poliziotti buoni che hanno trovato finalmente il colpevole e il solito giudice che poi gli dà la libertà condizionata, poi alla fine diventa anche quello. Sai, la suggestio… La calunnia è un venticello. No, un martellamento. Io ci ho avuto dei clienti che, addirittura, si esprimono come nei film americani. Invece di “Signor Giudice”, quando vengono lì, dicono: “Vostro Onore”. Ho avuto qualche cliente, capito? “Vostro Onore”. Ormai è tutto americanizzato, no? È tutto spettacolo. Purtroppo, in qualche misura, anche queste cose terribili e tragiche diventano spettacolo. Sono concessioni, personalmente, di pessimo gusto. Perché poi i processi veri che fanno in America, non sono quelli, eh. Perché gli americani hanno una sensibilità giuridica molto più raffinata della nostra. Non è a caso che il nostro Codice di procedura penale si ispira proprio ai loro meccanismi di ricerca della verità. E il meccanismo di ricerca della verità che risale a Aristotele, dice: “Nelle vicende umane io posso essere, posso avere la certezza etica-nicomachea (?)”, capitolo 105. Io posso avere soltanto la certezza di ciò che non è vero; io posso arrivare alla verità nelle cose umane soltanto per negazione. Questo non è vero, questo non è vero. Questo è sbagliato, questo è falso, questo è contraddittorio, questo è inverosimile, questo è ridicolo. Via, via via, via… Cosa rimane? Vediamo: lì. Così, ci arrivo alla verità. Non con i teoremi, eh. Non quando io vedo quello che voglio vedere. Io devo vedere ciò che è, non ciò che mi appare, o ciò che io desidero. In ogni disciplina c’è un grado di verità che è consono alla natura dell’argomento che si tratta. E sarebbe ugualmente sbagliato per un matematico essere persuasivo e per un oratore essere dimostrativo. Ovviamente non sono parole mie, ma si era aperta la parentesi su Aristotele. Sono questi i criteri. Nelle cose umane, alla verità si arriva per negazione. Non si può pretendere, come non può pretendere un matematico di essere persuasivo, non deve persuadere, deve essere dimostrativo, deve essere apodittico un matematico; così altrettanto sbagliato sarebbe pretendere da un oratore non di essere persuasivo, non di muoversi attraverso questi criteri di ricerca della verità, ma di esser invece a sua volta apodittico. E che cosa è più apodittico del fatto: siccome il coltello ce l’aveva nel forno, allora quello è il coltello del delitto. Se non è apodittico questo, se non è un’offesa al buonsenso comune, un ragionamento di questo tipo. E perché? Perché, come ho detto prima, gli indizi devono essere certi; quello, per essere un indizio serio e certo doveva portare verso l’unica direzione. E qui il Pubblico Ministero, sicuramente in buona fede, a proposito del coltello dice delle cose che non sono esatte, perché contrastano con le carte processuali. Cioè, dice, il Pubblico Ministero… fa uno sforzo di immaginazione ulteriore, in perfetta buona fede, per l’amor di Dio! Ci si innamora delle proprie teorie – l’ho detto prima – ma voi Giudici popolari, in particolare, siete qui per fare esercizio di buonsenso, comunque eh, non per innamorarvi delle costruzioni giuridiche. Pagina 55 dice: “‘Era quello, era quello che io ho visto usare da Vanni negli omicidi’. Vedete che è un’indicazione di Lotti molto forte, che per quanto riguarda il Vanni trova riscontri” – senti che uso della parola riscontro – “nel modo di custodirlo?” Attenti, Signori, a non custodire fuori posto gli arnesi da cucina e le stoviglie, perché è pericoloso. Se poi qualcuno vi chiama in correità, arriva la Polizia e vi trova una pentola fuori posto, potrebbe pensare chissà che cosa; magari a riti stregoneschi o magici. Chi lo sa! E poi dice, il Pubblico Ministero: “Cosa ci ha detto il professor Maurri?” Eh, io lo so cosa ci ha detto, me lo son segnato. Dice il Pubblico Ministero: “Perfettamente compatibile”. Questo si sarebbe stato un riscontro, una perizia. Una perizia seria, tecnica che, riscontrando le lesioni sulle vittime, specialmente quelle dove c’è stata l’escissione del seno – anche questa parola “escissione”, a questo punto, turba; si tratta di squartamenti, eh, questa è la parola; è inutile usare termini che sterilizzano le cose -Dice: “Perfettamente compatibile” – dice – “una volta visto, con l’arma usata nei delitti”. Non ha detto mai questo, il professor Maurri, eh. Questo è un ulteriore salto di immaginazione, di suggestione: “La calunnia e un venticello”. Il professor Maurri nell’udienza 12 novembre del ’97, dice: “Quello che gli hanno sequestrato al Vanni è senza dentellatura e con punta smussa, non idoneo a produrre le lesioni riscontrate” – ovviamente dice – “ora come ora”. Perché sono passati dodici anni. Gli vien chiesto insistendo: “Ma quindici anni fa?” Dice: “Ma la punta doveva averla” – dice Maurri – “quindici anni fa”. Quindi, teoricamente, conclusione: “non del tutto incompatibile”, testuale. Il professor Maurri, messo alle strette: ‘ma, insomma, che- vi devo dire ragazzi. Io non sono mica un veggente, non sono mica la Sibilla delfica, io se vi dico che così, anche ad occhio, a guardarlo non c’entra nulla; volete che io vi dica come era quindici anni fa? Non lo so, non l’ho visto quindici anni fa. Risposta sensata, buon senso comune: “Se me lo mostravate quindici anni fa, potevo essere più preciso”. E, comunque, aggiunge: “Mah, quindici anni fa, la punta la doveva avere. Ora non ce l’ha, perché il collega … non ce 1’aveva neanche la punta.” Quindi per le escissioni da punta. Dice: “Mah, non del tutto incompatibile”.. Nella requisitoria finale diventa “perfettamente compatibile, una volta visto, con l’arma usata nei delitti”. No, non si ricerca così la verità. No, non è questo il sistema, mi sia consentito. È vero che c’è la dialettica delle parti, accusa e difesa, il Giudice è terzo; ma il Pubblico Ministero ha anche il dovere di chiedere l’assoluzione, quando non ci sono dei mezzi sufficienti, eh. Qui, probabilmente è stato trascinato, diciamo, dalla umanissima enfasi delle sue tesi. Ma noi rimaniamo con i piedi per terra. Allora gli indizi. Perché, guardate, che questo processo si fonda sulla chiarezza di indizi e riscontri oggettivi. Poi, il resto sono meccanismi, regole di giudizio positive già precostituite dalla legge per cui da quelle non vi potete spostare. Voglio dire, come ho detto prima, se anche si arrivasse ad una valutazione – e ce ne vorrebbe, ma insomma, parleremo anche di questo – positiva, circa la credibilità e circa l’attendibilità intrinseca del Lotti, se poi non troviamo riscontri oggettivi non serve a nulla. Dobbiamo fermarci, dobbiamo sospendere il giudizio. E, quindi, che cosa sono gli indizi? Qui mi limito ad una lettura brevissima, perché sono massime della Suprema Corte di Cassazione che potranno – mi auguro – aiutarvi a discernere. Perché ogni volta che vi si parla di un particolare: la macchina, la Bartalesi, la Ghiribelli, il Pucci – poi non ne parliamo, poi arriveremo anche al Pucci – e tutte queste altre cose. Se voi, ecco, avete presente – io mi riferisco soprattutto ai Giudici popolari – se voi avete presente quelle che sono le indicazioni di logica elementare, potrete voi fare la cernita. Giudicare significa scegliere, eh. Quindi, nel giudicare dovete scegliere: questo va bene, questo non va bene. Non ne va bene nessuno, secondo la mia modesta opinione, e non per dovere di ruolo e di difensore. Allora, Cassazione 4 aprile del ’68, ingiustizia penale del ’69, Volume 3, pagina 59, Costante: “Gli indizi si differenziano profondamente dalle congetture. Perché, mentre queste sono costituite da intuizioni, apprezzamenti, opinioni, gli indizi consistono in fatti ontologicamente certi, collegati tra loro in guisa che per forza logica sono suscettibili di una sola e ben determinata interpretazione”. Ancora, Cassazione 25 marzo del ’76, caso Milena Sutter, sentenza Bozano. Poi ci torneremo, perché lì, lì c’erano degli indizi seri, infatti è stato condannato. E dice questa massima: “Gli indizi devono portare ad un convincimento che non deve avere contro di sé alcun dubbio ragionevole.” Che non deve avere contro di sé nessun dubbio ragionevole. Ancora, Cassazione 25 maggio del ’95, numero 5838, Avanzini: “La circostanza assumibile come indizio deve, perché da essa possa essere desunta l’esistenza di un fatto, essere certa”. Ancora: “Tale requisito” – dice – “benché non espressamente indicato nell’articolo 192 del Codice procedura…” Infatti dice il 192, quando ve l’ho letto, dice: “L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, a meno che questi siano” – usa questi aggettivi – “gravi, precisi e concordanti”. Gravi, precisi e concordanti. Dice la Cassazione: “Tale requisito della certezza, benché non… è da ritenersi” – dice – “insito nella precisione di tale precetto. Con la certezza dell’indizio, infatti, viene postulata la verifica processuale circa la reale sussistenza dell’indizio stesso, posto che, non potrebbe essere consentito fondare la prova critica” – cioè la prova indiretta, l’indizio che fonda la credibilità del Lotti – “su di un fatto solo verosimilmente accaduto” – solo verosimile – non certo supposto od intuito, inammissibilmente valorizzando, contro indiscutibili postulati di civiltà giuridica, personali impressioni od immaginazioni del decidente”. Oh, guardate quante parole: impressioni, suggestioni, immaginazioni, sospetti, ipotesi di lavoro, desideri. Hanno desiderato che in quelle macchine che giravano intorno a Vicchio, quella sera, ci fosse il Vanni; ma nessuno l’ha detto che c’era Vanni. Vanni non lo nomina nessuno. Quello sarebbe stato un indizio, perbacco! Dice: ‘ha visto Vanni in una di quelle due macchine che giravano là intorno’. Intanto un testimone… un testimone che mi viene a dire – lasciamo perdere a distanza di dieci anni, valuterete, eccetera, ma già questo, del testimone deve essere valutata l’attendibilità -il testimone, in perfetta buona fede, può esprimere una sua impressione, una sua immaginazione che non può essere utile, per esempio, alla ricerca della verità. E, certamente, un testimone sentito il giorno dopo ha un valore molto maggiore di un testimone sentito dieci anni dopo, pescando nelle carte, eccetera. Questo mi pare evidente, anche qui il buonsenso comune, no? Mah, oltre questo fatto, un testimone che dice: “Nei dintorni della piazzola di Vicchio” – perché questo dice, non ha detto neanche all’imbocco della piazzola, nei dintorni – “la sera dell’omicidio, in ora prossima a quella” – perché non c’è nient’altro di preciso – “io ho visto due macchine: una rossa e una bianca, una scura e una chiara, accorrere a velocità sostenuta.” ‘E forse in quella davanti’ – non so se lo dice qualcuno -‘c’erano due persone, in quella di dietro ima, o una e una’, eccetera. E beh, il testimone intanto, per il fatto stesso, Signori Giudici, che sta venendo dagli inquirenti a raccontare questa cosa, ha già espresso un giudizio. Già vale pochino la sua testimonianza, perché lui si è presentato spontaneamente a esprimere un giudizio, a dire cioè: ‘guardate Signori, io, ho collegato la vista di due macchine, non meglio identificate, né targa, né identikit degli occupanti, zero…’. Di Vanni non parla mai nessuno. ‘Io ho identificato queste due macchine e nella mia mente ho fatto un collegamento logico: ho collegato queste due macchine all’omicidio’. Grazie, lei è stato molto urbano e civile, dice l’inquirente, però se mi permette questo collegamento logico lo dovrei fare io; vediamo se quello che lei mi sta raccontando è utile a me. Quindi, c’è un testimone che si permette lui, in qualche modo, di fare il giudice. Un po’ come il Lotti, no? Si diceva nel Medioevo: “Relevatio ab onere probandi”, rilevare i Giudici dalla fatica di cercare la prova. Eh, arriva uno che confessa, dice: voi dovete solo… “relevatio ab onere iudicandi”, addirittura. C’è il chiamante in correità che, in pratica, lui che si sostituisce a voi. Se voi prendete, pedissequamente quello che lui dichiara, acriticamente come dice il Pubblico Ministero. Dice: “Non dobbiamo affannarci a capire”. Ecco, se voi non fate questa operazione, è lui il giudice, è lui seduto lì in tutte quelle dodici sedie, non voi. Mamma mia, dodici Lotti seduti lì. Quindi, dico, hanno visto delle macchine; è stato portato come indizio; addirittura è stato portato come riscontro oggettivo, poi arriveremo al riscontro oggettivo. Signori della Corte, no, non ci siamo proprio. Perché voi dovete dire come sia possibile una vicenda di questo tipo: le macchine, il carosello delle macchine a Scopeti e a Vicchio. Cassazione: “La correlazione tra la circostanza indiziante” -queste macchine che girano lì intorno, è una circostanza indiziante; la correlazione tra queste macchine è il fatto da provare: lui il colpevole, lui, eh, io sto parlando di Vanni, eh. “Deve essere tale” – dice la Cassazione – “da escludere la possibilità di una diversa soluzione”. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Ora, come fate voi, a dire che non esista la possibilità di una diversa soluzione, di fronte ad un giudizio espresso dieci anni dopo da dei testimoni che dicono: ‘io ho visto delle macchine girare e le ho collegate all’omicidio’. E che c’entra Vanni, rispondo io. Deve essere esclusa la possibilità di una diversa soluzione; deve essere esclusa la possibilità di una diversa soluzione. Deve essere certo l’indizio, deve portare verso una direzione unica. E allora, tanto per fare un esempio di indizio serio, invece, di indizio vero non serio: questi non sono neanche indizi, questi sono sospetti. E il sospetto deve essere il costume dell’inquirente. Il sospetto è una cosa nobilissima. Deve essere il costume di vita dell’inquirente il sospetto. Ciò che meraviglia, in questa vicenda, è che di questo costume si siano completamente spogliati, ignudati gli inquirenti, a proposito di un reo confesso come è il Lotti. Nei suoi confronti il sospetto non è stato usato. Tutta la fatica è stata impiegata, impegnata nel cercare disperatamente riscontri a ciò che lui dichiarava. Mah, questo è un atteggiamento mentale che in partenza è sbagliato, Signori. Se, da me inquirente, non so se ricorderete quando io facevo delle domande al dottor Giuttari, in proposito, dico: ‘ma è venuto da lei, il Lotti?’ Dice: “No”. Comincia subito a mettere le mani avanti, già questo è antipatico. Dice: “No, ma, non è venuto da me, è venuto dal Pubblico Ministero, io mi sono…”. “No, no, lei è il Capo della Squadra Mobile, perbacco! È sui giornali tutti i giorni, no? Allora, risponda alle domande”. “È venuto da lei, il Lotti”, che dice: io, io, mi minacciava, mi voleva svergognare in paese. Sono stato costretto, facevo il palo, io ho visto, io ho visto.” Benissimo. La prima regola per l’inquirente è fare esercizio di sano sospetto proprio nei confronti di un colpevole, tra l’altro, voglio dire, neanche di un testimone. E, allora, quando viene il Lotti e ti dice: andiamo a vedere i sopralluoghi, guarda sì, questa è la piazzola. Dice cose che sanno tutti, pure io, voi, tutti. Le abbiamo lette per dieci, dodici anni sui giornali; non ha detto niente. La via di fuga: ha detto cose che non sapeva nessuno; ma scusate, se uno vuol dire una bugia bisognerà pure che se l’inventi una via di fuga. Anzi, quei sopralluoghi sono la prova provata che lui non c’era mai stato. E perché? Perché uno che di notte, seguendo un’altra macchina e come dichiara lui stesso: “C’era un tale polverone”. Lo dice, lo dice, voi ve lo ricordate. “La macchina guidata dal Pacciani» – dice “sollevava un tale polverone, perché andava su strade secondarie e di corsa” – sto parlando di Vicchio, in particolare – “tale che io ci vedevo proprio il giusto, guardate, pochissimo appena i fari davanti.” Eccetera. E poi, dopo undici anni – qui si sta superando un’altra volta la soglia del ridicolo, non so se ve ne siete accorti – dopo undici anni vi viene a raccontare, viene a raccontare prima che a voi, agli inquirenti – perché non è colpa vostra – agli inquirenti, ma questo: la fonte, il torrente; prima scorreva meno acqua, la casa. Sapete cosa sarebbe stato un indizio? Se lui, dopo aver portato gli inquirenti in una casa qualunque – perché uno che racconta una storia, benedetto il Signore, anche con i limiti di fantasia intuibili in Lotti, va beh, se poi la devo raccontare con i pochissimi particolari che ha dato; una casa, una via di fuga dovrà pure indicarla. Perché la prima domanda che gli fanno: ma insomma da dove siete scappati via? – e indica una casa, una casa abbandonata; evidentemente. Tra l’altro, anche qui lui dice che era un rustico in costruzione e poi viene fuori che era una colonica di duecento anni prima. Insomma, lasciamo perdere; può darsi che non abbia grandi nozioni di architettura. Dico, quale sarebbe stato l’indizio? L’indizio sarebbe stato se, entrati in questa casa, quando lui ha messo la manina nella buca, ce l’avessero trovata davvero la pistola. Allora sì. Quello sì che sarebbe stato, avrebbe dato, avrebbe illuminato, finalmente, di luce questa vicenda. O riscontro oggettivo: io vi sto raccontando delle cose, io sono arrivato – apprezzo molto il sorriso del Pubblico ministero, mi auguro che potrà sfogarsi nella sua replica – dico, vi sto dicendo la verità, non vi sto dicendo una cosa che vi potrebbe dire chiunque, anche uno che inventa. Tanto è vero che lì qualcosa c’è; invece non c’è nulla, ci racconta di buche, eccetera. Allora, qual è la differenza tra indizio e sospetto con riferimento alle macchine, per esempio? Caroselli di macchine. Vanni. E beh, Vanni doveva essere lì, e sennò come si fa a dire che è credibile il Lotti, no? Ecco, dalla sentenza vi leggo, della Corte di Cassazione, eh. Voi, ricorderete tutti il caso di quella disgraziatissima ragazza, Milena Sutter, rapita e uccisa dal Bozano. Fu un processo sommamente indiziario, perché si arrivò proprio attraverso proprio un’analisi puntuale di una serie di indizi, numerosi, precisi, concordanti, univoci e certi ad arrivare alla condanna di questo individuo. Il quale naturalmente ha negato fino in fondo, difendendosi abilissimamente. Tanto è vero che in Assise di I grado fu assolto con una sentenza della Corte di Assise di Genova che fu censurata dalla Suprema Corte, perché aveva valutato i vari indizi in modo sconnesso, separato l’uno dall’altro. Cioè, invece di avere… perché dice che devono essere gravi, precisi e concordanti. Tutti, valutati complessivamente, devono portare verso un’unica direzione. Invece, la Corte di Assise, commettendo un errore logico – di I grado – li aveva valutati uno ad uno; e uno a uno si spogliavano, insomma, deperivano questi indizi, no? E alla fine dice: “non esiste la prova certa”. All’epoca si diceva: “insufficienza di prove”. Con riferimento al discorso presenza dell’imputato sul luogo del delitto, macchine, contromacchine, guardate che differenza che c’è tra un indizio, un indizio vero, e le cose che ci ha raccontato il Pubblico Ministero, in questa vicenda. Dalla sentenza della Corte di Cassazione 25 marzo ’76, Bozano: “In ordine alla presenza del Bozano sul luogo del rapimento, nello stesso momento in cui questo era stato commesso, ha rilevato la Corte di Assise d’Appello – che lo aveva condannato – “che tale presenza risultava in modo certo dalle convergenti e non sospette deposizioni dei testi: Moraldi, Collatuzza e Muller, i primi due abitanti uno di fronte e l’altro a fianco della scuola svizzera frequentata dalla povera ragazza, dalle quali era emerso che anche alle ore 17.00 del 6 maggio ’71, il Bozano” – si dovrebbe dire il Vanni, e chi lo dice il Vanni ? Nessuno lo dice – “il Bozano era appostato con la macchina davanti alla suddetta scuola, per cui” – conclude la Corte – “il collegamento logico tra tale fatto ed il rapimento di Milena Sutter doveva considerarsi automatico”. Questo è l’indizio certo, la cui interpretazione porta verso un’unica direzione, che non è suscettibile di molteplici interpretazioni, ma di una sola, al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma lì, nel caso di Bozano, c’erano: tre persone che lo avevano visto all’ora del rapimento nella sua macchina – la famosa Spider rossa, ve lo ricorderete, facilmente riconoscibile proprio perché era una Spider – lui, lui persona fisica, Bozano “il biondino” davanti alla scuola svizzera. Provate a confrontare, a paragonare questo, che è un indizio, per davvero. Qui, sarebbe il caso di dire che già questo da solo bastava a incastrarlo, non ad ingannarlo, a incastrarlo; poi ci arriviamo. Dico, e quello che vi è stato raccontato di queste assurde girandole. Dice: ma, sì ma io ho riconosciuto… Questi testimoni che, dopo dieci anni, soffrono tutti di mania di protagonismo. A me non mi avete tenuto in considerazione prima. Noi abbiamo un debito di riconoscenza, anzi gli chiediamo scusa al testimone che non l’abbiamo cercato prima”. E che hanno visto, questi? Dunque. Intanto i luoghi del delitto, nel caso nostro, erano – parlando di Scopeti e di Vicchio – delle piazzole e dei luoghi ben precisi. Le macchine non sono state viste in prossimità o davanti ai luoghi del delitto. Sono stati visti in movimento delle macchine con delle persone dentro. “Una” – dice la Ghiribelli – “mi è sembrata, per il colore un po’ sbiadito quella del Lotti. Quando l’ho detto c’è rimasto male.” Beh, vorrei vedere che ci rimanesse bene. Che è sintomatico di un qualche cosa, questo? Che ci rimane male. Dice: ma non sarà mica è lui il mostro di Firenze? Come si reagirebbe? Eh, ma riuscite ad avvertirla, no, dico, la differenza di peso tra questi lampi e queste certezze? Il Bozano, visto e riconosciuto, lì davanti nel momento del rapimento. Paragonatelo con lui, perché io assisto lui. A me del Pacciani non mi interessa, io assisto lui. Qualcuno dice che ha visto Pacciani. E che vuol dire? Io assisto Vanni, di Vanni non parla nessuno. Chiederei una sospensione, Presidente.

Presidente: Va bene. 

Presidente: Avvocato può riprendere. Grazie.

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Grazie, Presidente. Quindi, Signori Giudici, vorrei concludere le mie riflessioni, che sono più che altro riflessioni di ordine metodologico, di metodo. Quando c’è da fare un lavoro bisogna sapere come farlo, prima di tutto. Prima di accingersi a fare il lavoro, bisogna sapere, avere chiaro che strada seguire, che procedura seguire. Processo significa questo. Altrimenti non ci sarebbero i processi, ci sarebbe la giustizia di Lynch: preso il colpevole, messo sul ramo di un albero e tirata la corda. Si parlava degli indizi, si parlava della natura di certezza dell’indizio e conclusivamente: “Gli indizi” – dice appunto in quella sentenza Bozano la Suprema Corte di Cassazione – “devono portare ad un convincimento che non deve avere contro di sé nessun dubbio ragionevole.” Nessun dubbio ragionevole. Nel senso, i dubbi irragionevoli ce li possiamo anche permettere, però purché li teniamo nel nostro foro interno, purché ce li teniamo per noi stessi. Qui siamo chiamati a fare esercizio di ragione e di civiltà; poi ognuno avrà le sue brave convinzioni: secondo me è questo; l’Italia è un paese di arbitri, a proposito del calcio, quindi, potrà permettersi anche l’Italia, in una vicenda come quella del “mostro di Firenze”, di avere 50 milioni di giudici. Ma voi siete la legge, non quegli altri che rimangono. E quindi voi soltanto, di fronte a un dubbio ragionevole, ragionevole, dovete fermarvi… i dubbi irragionevoli: ‘ma secondo me l’è colpevole’, ‘e chi mi dice che non ci fosse davvero il Vanni in quella macchina quella notte? ‘. . . No, questo non è un modo da ragionare da giudici. Voi siete chiamati a una funzione altissima e, a seconda di come la svolgerete, potrebbe segnare -questa è un’osservazione, direi una constatazione – il resto della vostra vita, proprio perché voi non avete scelto di fare questa professione di decidere del destino delle persone. Nessun dubbio ragionevole. Senza mai dimenticare che nella condizione di un accusato, e magari di un accusato ingiustamente, ciascuno di noi è esposto a trovarsi. E quindi, conclusivamente, su questo aspetto della, come dire, dell’ordine metodologico da seguire, io mi permetto di ricordare, anche al Presidente, la relazione al progetto preliminare del Codice di procedura penale, a proposito di quell’articolo 192 che ha canonizzato la cosiddetta “chiamata in correità vestita”, che è una grande conquista di civiltà giuridica. Direi che fa bene a tutti noi, perché la calunnia è sempre in agguato nella vita di ciascuno di noi. E cosa dice il relatore al progetto preliminare, a proposito proprio del metodo, della strada da seguire, della procedura, del processo da seguire quando ci si trova di fronte a una chiamata in correità. In parole molto povere dice: state attenti, voi Giudici, perché dovete fare una serie di operazioni, servendovi, prima di tutto, del vostro buonsenso comune, anche per non cadere inconsapevolmente, diciamo, nel ridicolo. Inconsapevolmente, perché da un errore giudiziario ci si può anche salvare. Uno dice: ‘bah, è stato bravo il Pubblico Ministero, sono stati ciuchi gli avvocati dell’accusato’-, gli elementi in nostro possesso a quell’epoca erano questi, poi ne sono venuti fuori altri. Si sa, la Giustizia umana è fallibile, questa la ricordavo, la Giustizia Divina, a proposito del Pacciani, non so quanto a proposito, comunque. Dico, ma dal ridicolo non ci salva nessuno, per tutti i secoli dei secoli, perché cadere nel ridicolo significa non fare esercizio di buonsenso comune. Cosa dice il relatore preliminare al Codice di procedura penale? Dice, a proposito della chiamata in correità, parla della: “Necessità” – ecco, leggo da qui – “di circondare con maggiori cautele il ricorso ad una prova come quella proveniente da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all”imputato” – Lotti – “e ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine a ingenerare un erroneo convincimento giudiziario.” – Qui si rivolge proprio ai Giudici “Il concetto di valutazione unitaria: credibilità, attendibilità intrinseca,” – vedremo che vuol dire- – “attendibilità estrinseca, riscontro.” – Quindi, valutazione unitaria. Postula, questo concetto, l’impegno del Giudice a indicare nella motivazione del provvedimento le prove o gli indizi che corroborano la chiamata di correo. Ne deriva che l’onesto esame degli elementi capaci di offrire il riscontro alle dichiarazioni incriminanti, si traduce in un difetto di motivazione, rilevabile anche davanti al Giudice, di legittimità a norma dell’articolo 599, Comma I, lettera E, oggi articolo 606, Comma I, lettera E, sul vizio di motivazione. E quindi, questa indicazione, intanto di regola positiva di giudizio affermato da un articolo di legge – quindi, voi siete la legge, voi dovete applicare la legge, è l’articolo 192, Comma III del Codice di procedura penale – poi, queste indicazioni esplicative di interpretazione autentica della legge, data da chi l’ha scritta quella legge, in buona sostanza, sono stati il criterio che nella breve vita, diciamo, del nostro Codice di procedura penale – è entrato in vigore nel 1989 – sono stati criteri a cui si è uniformata la Corte Suprema di Cassazione. Che, come spiegavo prima, per i Giudici non togati, è il Giudice dei Giudici, è quello che dice se la vostra sentenza sarà stata conforme a legge, oppure avrà violato la legge. E, in particolare, esiste una sentenza della Corte di Cassazione, che è stata data a Sezioni Unite. Che significa Sezioni Unite della Corte di Cassazione? Che è una giurisprudenza fortissima. La Corte di Cassazione su questo argomento così delicato, così infido, come la chiamata di correo, ha ritenuto opportuno pronunciarsi a Sezioni Unite. Tutte e cinque, sei, non so quante sono le Sezioni della Corte di Cassazione, si sono messe insieme e hanno formulato una regola di giudizio. Come dire: le regole a cui deve attenersi il Giudice – in questo caso voi – quando si trova di fronte a una chiamata di correo, stante l’estrema delicatezza anche sotto il profilo di civiltà di questo strumento di ricerca della verità. Mi riferisco alla sentenza del 21 ottobre ’92, Sezioni Unite, Corte di Cassazione, è il “caso Sofri”, sentenza Marino più altri. Dove nei motivi della decisione la Corte Suprema dice: “I problemi relativi all’interpretazione dell’articolo 192, Comma III del Codice di procedura penale vigente, per la parte concernente la corretta valutazione della chiamata in correità, come dice la legge, unitamente agli elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, e nei termini indicati dall’istanza” – era un ricorso in Cassazione -“sopra richiamati dal Procuratore Generale, presuppongono, nell’ordine logico, la risoluzione degli interrogativi che la stessa chiamata in correità, in sé considerata, pone sotto un duplice aspetto.” E qui bisogna attenersi a questo; infatti, il resto della mia esposizione avrà a che fare con una, come dire, applicazione, ecco, di questi principi – Sezioni Unite della Cassazione -riferiti al nostro caso concreto. “In primo luogo” – dice la Cassazione, Sezioni Unite – “occorre sciogliere il problema della credibilità del dichiarante” – il problema della credibilità del Lotti, confidente e accusatore, si è confessato e accusato. Quindi, la credibilità del dichiarante come quindi – “in relazione alla sua personalità,” – quindi, esame della personalità – “alle sue condizione socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità,” – rapporti Lotti-Vanni, per esempio, eccetera – “e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all’accusa dei coautori e complici.” Catartico sentimento di autoliberazione di cui si parlava prima. Quindi, allora, primo esame che deve fare il giudice: la credibilità. E quali sono i parametri della credibilità? Andare a guardare, analizzare e studiare, sotto un profilo di credibilità, con riferimento al fatto se sta dicendo la verità oppure no, va bene, “la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i rapporti con gli altri chiamati in correità, la genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all’accusa dei coautori e complici.” “In secondo luogo” – dice la Cassazione – “si pone il problema della verifica della intrinseca consistenza e delle caratteristiche delle sue dichiarazioni.” Allora, intanto vediamo la persona, poi vediamo cosa ci dice. Vediamo cioè questa “intrinseca consistenza e le caratteristiche delle sue dichiarazioni, alla luce dei criteri” – e qui fa un rimando a quella Giurisprudenza da qui a cinquant’anni prima che vi ho citato – “alla luce dei criteri che l’esperienza giurisprudenziale ha individuato.” E quali sono i criteri per stabilire se il racconto del Lotti ha l’apparenza della verità, è credibile oppure no? Eh, i criteri sono: “precisione, coerenza, costanza, spontaneità”, e così via. Precisione, coerenza, costanza, spontaneità… Avrete notato che non mette più disinteresse, per la ragione che avevo spiegato prima. Mentre fino a qualche anno fa, fra i criteri dell’intrinseca credibilità c’era il disinteresse di colui… cioè, non ho un interesse io a dire una cosa piuttosto che un’altra, sono libero, la mia coscienza è libera, mi voglio liberare. E invece non lo mettono più, giustamente. Con una legislazione poderosa come quella premiale che abbiamo, bisogna fare buon visto a cattivo gioco, in poche parole questo è il sano realismo dei giudici, e dire: lasciamo perdere il disinteresse, guardiamo le altre cose, perché sennò nessuna chiamata in correità sarebbe utilizzabile, ecco; sarebbe inutilizzabile in partenza. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Allora, continua la Suprema Corte e arriva al punto terzo. Dice: “Ovviamente i problemi ora accennati e quelli relativi ai riscontri cosiddetti esterni,” – o oggettivi – “concettualmente distinti, possono concretamente intrecciarsi, come pure accade nel caso presente, e tuttavia il Giudice deve compiere l’esame seguendo l’ordine logico indicato”, Cassazione Sezioni Unite: personalità, attendibilità, veridicità, credibilità delle sue narrazione, riscontri oggettivi. “Tuttavia il Giudice deve compiere l’esame seguendo l’ordine logico indicato, perché non si può procedere a una valutazione unitaria della chiamata in correità, e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità,” – come dice quella norma che conosciamo – “se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé.” Prima di andare a vedere chi ha dichiarato… quando io chiedevo al dottor Giuttari: ‘ma insomma, lei si è posto il problema?’, non l’avevo ancora letta questa sentenza io. Io l’ho detto, il 23 dicembre, nel mio esame del dottor Giuttari, dico: ‘ma scusi, ma quando è venuto quest’uomo che ha fatto i sopralluoghi, la buca, c’era meno acqua, c’era più acqua, il ponticino, la casa, ma lei si è posto il problema della personalità di questo soggetto che stava vedendo? Andate a guardare le risposte che ha dato l’inquirente. Dico: “…se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa.” Quindi, credibilità, attendibilità intrinseca, attendibilità estrinseca.” I dubbi che si addensano sulla chiamata in sé con riferimento al Lotti. Allora, andiamo ad esaminare, per esempio, la personalità. Io seguirò un criterio di legge, un criterio di giustizia, Sezioni Unite della Cassazione. Prima di tutto che bisogna fare? “La credibilità del dichiarante in relazione alla sua personalità.” E qui devo spezzare una lancia verso il rappresentante della pubblica accusa il quale è assolutamente condivisibile… addirittura, secondo me, è stato il momento più – misera opinione – alto della sua esposizione, della sua orazione, laddove vi ha illustrato la personalità del Lotti. Ha assunto addirittura valenze letterarie, secondo me, la sua esposizione. Perché, cito testualmente dalla requisitoria del Pubblico Ministero. Dobbiamo esaminarla questa personalità, e dice così: “È un emarginato, una personalità debole e sottomettibile. Cede alle personalità più forti. È portato a subire qualunque minaccia, anzi, la ingigantisce.” – La ingigantisce – “È uno che non riesce a elaborare nessuna difesa, subisce. È una persona che non ha valori.” Che non ha valori? Quanto può essere credibile una persona che non ha valori? Un uomo in vendita, commenterei io. Ma andiamo avanti, sentiamo cosa dice il Pubblico Ministero: “È una persona che non ha valori, il mondo intorno a lui è inesistente.” Quindi, problemi di coscienza se deve mettere nei guai qualcuno non se ne porrà, lo dice il Pubblico Ministero, e il Pubblico Ministero direbbe: ‘Marcantonio è uomo d’onore, bisogna credergli’. “È una persona che non ha valori, il mondo intorno a lui è inesistente. L’unica cosa che lo interessa è la soddisfazione dei bisogni elementari, primari: un tetto, una macchina, pure usata, le 50.000 lire per andare con le prostitute.” – Mamma mia che personalità! – “Non coltiva sentimenti religiosi,” – non vi fate fuorviare dal fatto che fosse lì in quella comunità gestita da un prete – “Non coltiva” -dice il Pubblico Ministero – “sentimenti…” – lui lo conosce benissimo il Lotti, molto più di me, insomma – “sentimenti religiosi, sta in comunità soltanto perché ha bisogno di un tetto.” Che cosa si può aggiungere, quale commento bisogna fare? Uno solo, questo lo faccio io, non era il Pubblico Ministero: tipo ideale di calunniatore per proprio tornaconto. Se il Giudice vede, prima di tutto, nell’ordine logico indicato dalle Sezioni Unite della Cassazione, esaminare la personalità per, evidentemente, fugare i dubbi, chiarire gli eventuali dubbi che si addensano sulla chiamata in sé, quindi prima di tutto la personalità -lasciamo perdere quello che ha dichiarato – che elemento è questo? E qui c’è da allargare le braccia, Signori. Questa è la peggior figura di chiamante in correità che disgraziatamente si possa trovare sulla sua strada un giudice che, poverino, deve decidere, soffrendo. E deve decidere del destino delle persone con uno che non ha valori, il mondo intorno a lui è inesistente, l’unica cosa che gli interessa è le 50.000 lire per andare con le prostitute, non coltiva sentimenti religiosi: tipo ideale di calunniatore; questo è un uomo in vendita, prezzolabile, tranquillamente. Allora, già la prima – sono tre gli elementi – il primo elemento è decisamente negativo, ma non negativo da ragionarci sopra, da fare le chiose, da interpretare, come s’è fatto con le sue dichiarazioni – poi ci arriveremo – l’esegesi del pensiero del Lotti. Chi mai lo avrebbe detto, nell’arco di una vita, che si doveva arrivare al punto da fare l’esegesi del pensiero del Lotti! Infatti io non la farò l’esegesi del pensiero del Lotti, io farò parlare il Lotti, da quello che lui ha dichiarato, quando arriveremo alle sue dichiarazioni. Dico ma qui, qui si parte da un materiale, Signori, mah, io inquirente, fossi stato, avrei detto: ragazzi, qui c’è da allargare le braccia, proprio. Qui abbiamo raschiato il fondo del barile con uno così. Si parla dei pentiti inattendibili, questo è la quintessenza dell’inattendibilità. Mah, proprio guarda, tutto ha detto, ha detto tutto. Lasciamo perdere la religione, perché qualcuno potrebbe dire che non è fondamentale, per me sì, invece, ma comunque, lasciamo perdere; il sentimento religioso è fondamentale. Il sentimento religioso. Non ha valori: un tetto, non se ne frega di nessuno, gli interessa soltanto la soddisfazione dei bisogni, è una persona debole e sottomettibile. Debole e sottomettibile. E lo vedremo a proposito della telefonata, è l’unico momento di verità del Lotti, perché lui non ha la certezza di essere ascoltato; la famosa telefonata che fa alla Filippa Nicoletti. Lì parla Lotti, lì sì, per una volta sentirete la voce del Lotti. Con un affare di questo genere uno dice: va be’, ragazzi, non andiamo neanche avanti perché, via, seguiamo altre piste. Qui sono venuti inquirenti serissimi che hanno speso anni della loro vita, oltre a scriverci dei libri, ma insomma, come il dottor Perugini, che hanno seguito metodi veramente scientifici, nella ricerca della verità in questa vicenda così tragica e dolorosa, così estranea alle nostre coscienze anche, no? E infatti questa estraneità alle vostre coscienze sembra quasi emergere anche dalla requisitoria del Pubblico Ministero quando, a tutti i costi, vuole dipingerci un Vanni che è un diverso. No, no, lui è un uomo, è umano come noi, ha la nostra stessa umanità, è inutile girarci intorno; era più facile con Pacciani questa operazione. Uno si ritrova, un’inquirente, con una persona di questo genere, dice: attenzione, fermi tutti. Giurista del XV secolo, Niccolò Tedeschi – si dice tanto di barbarie giuridica – dice: ”Quando il delitto è più grave, tanto più le presunzioni devono essere forti, non deboli” – e questa è già una presunzione fortissima, che questo ci sta raccontando le bugie – “perché dove il pericolo è maggiore bisogna anche andare più cauti.” Regola elementare di vita quotidiana, per tutti noi: dove il pericolo è maggiore, perché il delitto è gravissimo, quindi, il pericolo di sbagliare è maggiore, di fare del male non di sbagliare, di fare del male è maggiore, bisogna andare ancora più cauti. E come si fa a andare cauti con uno così? Come si fa a prenderlo a sposarlo in blocco, integralmente, a affannarsi per anni di indagini a cercare riscontri e verifiche a tutti i costi? Come un quadro, io c’ho davanti a me un quadro, va bene, e poi c’ho una cornice prefabbricata. E’ come se io avessi voluto a tutti i costi questo quadro farlo entrare nella cornice prefabbricata, non c’è versi, un pezzo di quadro resta sempre fuori. L’indagine in questo caso è stata questa. Io non mi addentro nell’esame dell’indagini, perché è un argomento che svolgerà il mio collega codifensore, però questo va detto come metodologia. Andatevi a rileggere l’esame del teste Giuttari. Hanno avuto un quadro, un quadro che si presentava come un quadro fatto male. Sappiamo che questa è una storia di quadri e di interpretazioni fasulle sui quadri – mi viene in mente il processo Pacciani di I Grado – e questo quadro a tutti i costi hanno voluto farlo entrare in una cornice prefabbricata, con l’atteggiamento psicologico il più sbagliato da parte degli inquirenti. E qual è l’atteggiamento psicologico più sbagliato da parte degli inquirenti? Cercare, in perfetta buona fede ovviamente, di rispondere a un’esigenza di Giustizia, a un’esigenza sociale di trovare, di trovare, non di dare in pasto, di trovare, di trovare un colpevole. Ma voi qui siete chiamati a dire se è il colpevole. E c’è una bella differenza tra proporre un colpevole e giudicare e condannare il colpevole. Allora, qual è stato l’atteggiamento psicologico degli inquirenti? Mah, ancora una volta torna alla memoria Alessandro Manzoni, perbacco, “Storia della Colonna Infame11, qualcuno avrà ricordi scolastici. Peste di Milano del 1630. Allora non si sapeva che la peste veniva propagata dai topi, se non vado errato, si pensava ci fossero gli untori. Quindi, proprio una premessa di partenza completamente fuori luogo, completamente errata, foriera di gravissimi errori giudiziari. E che hanno fatto i Giudici? Poverini, lì c’era la cittadinanza di Milano che, capito?, che spingeva: ‘trovate i colpevoli, trovate i colpevoli’, e dice Alessandro Manzoni: “Ma il più strano e il più atroce” – e il più atroce – “si è che non paressero tali neppure all’interrogante” – cioè, verità, quelle che gli raccontava il cosiddetto confidente e accusatore degli altri, perché lo trovarono alla fine uno, tipo che aveva la funzione del Lotti – “che non paressero tali neppure all’interrogante” – vere, le cose che diceva – “e che non chiedesse spiegazione alcuna.” Cioè, arriva il Lotti, dice le cose, non è che gli chiedono spiegazioni: ma lei come ha fatto a vedere questo? Ma come fa a dire che era quell’altro? No, l’hanno prese subito per buone. “O se ne chiese” – dice Manzoni – “sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo. Il fatto è che l’interrogante era impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che gli veniva messo davanti. Aveva ricevuto una notizia desiderata” – il Lotti ha portato una notizia desiderata, no, dice: ‘io c’ero agli Scopeti, ho visto’ – “e non voleva trovarla falsa. Aveva detto: finalmente” – ah, finalmente – “e non voleva dire: siamo daccapo.” Un’altra volta.” E in quest’indagine diamo atto al Pubblico Ministero, l’ha riconosciuto, quante volte hanno detto: siamo daccapo. Sintomo di grande intelligenza, di grande onestà, di grande moralità, e perché non arrivare a dirlo anche stavolta? Voglio dire: errare è umano, perseverare è diabolico. Non lo so, dico, il fatto che ci siano stati tanti errori dovrebbe indurre ancora a maggiore cautela in questa vicenda giudiziaria, ulteriore. E qui questa cautela non emerge dal soggetto che abbiamo per le mani. Proprio per niente. Una cautela maggiore, no; una cautela minore semmai. “Non voleva trovarla falsa. Aveva detto: finalmente, e non voleva dire: siamo daccapo. E così la rabbia…” Pensate alla rabbia nei confronti del Vanni, io ci ho visto della rabbia. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Un Vanni che in 19, 18 mesi di carcere scrive 210 lettere, viene dipinto subito come uno che manda minacce a giro per il mondo. Ma Signori, via, e basta, non si può sparare sempre così sulla Croce Rossa. Il callido Vanni che lancia messaggi minacciosi, per lettera dal carcere, vero, 220 lettere. Che sofferenza c’è dietro a 220 lettere in 18 mesi di carcere? Perché non cominciamo a chiederci anche questo, visto che è nostro simile, colpevole o innocente che sia. Che sofferenza c’è? Di sofferenza non si parla, si parla delle minacce che lancia. Ma è un arrampicarsi sugli specchi, Signori, lui non ce l’ha le physique du róle, lo vedremo. Continua Alessandro Manzoni: “E così, la rabbia, resa spietata, era diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavano di sfuggirle di mano” il timore di mancare a un’aspettativa generale, di parere meno abili se scoprivano degli innocenti, di voltare contro di sé le grida della moltitudine col non ascoltarle. Avrebbero potuto fare tante domande, ma temevano di non trovarlo reo. Temevano di non trovarlo reo. Coltello: si, l’ha riconosciuto Lotti, è il coltello… Non è niente. “Temevano di non trovarlo reo.” E questa, veramente, è la chiave di tutto. Alessandro Manzoni, “Storia della Colonna Infame”. E questa è la personalità, prima analisi richiesta dalla Corte Suprema di Cassazione in ordine al lavoro che devono fare i Giudici. Poi, dice ancora la Suprema Corte, andate a vedere, dice: “Personalità, condizioni socio-economiche e familiari…” “Condizioni familiari”: nessuna. Sembra proprio, voglio dire, l’uomo della provvidenza questo, perché figli non ce ne sono, persone care non ce ne sono, l’unico momento di riflessione affettuosa l’ha provato nei confronti della madre che è morta vent’anni fa in un manicomio, con la sorella non si può vedere. Quindi, proprio timore, diciamo, del disdoro, come si potrebbe dire? Timore, diciamo, della riprovazione sociale in conseguenza della sua delazione: zero, completamente. Un uomo solo l’ha descritto. Condizioni socio-economiche. Mah, anche qui diciamo come stanno le cose: legislazione premiale. Quest’uomo, ora sì, finalmente ha vinto un terno al lotto. E sapete perché? Non perché ve lo dice il sottoscritto, che non conterebbe nulla, ma perché lo dice la legge. Lo dice la legge che lui ha trovato un terno al lotto, sì, per la prima volta nella sua vita. La ruota si è girata, capito? “Genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all’accusa.” Si capisce qual è questa genesi. Lui ha risposto -poi vedremo la telefonata alla Nicoletti -semplicemente: ‘mah, sa, agli interrogatori mi hanno messo in mezzo’. Poi lo spiega meglio quando parla con la Nicoletti. E perché lui addirittura si è avvantaggiato in questo caso? Sono dati oggettivi questi, qui non sto esprimendo dei giudizi sul Lotti. I giudizi sul Lotti li ha espressi già il Pubblico Ministero. Cioè, voglio dire, quello è un dato di fatto. Ve l’ha già illustrato lui, vi ha detto lui che persona è: il peggior chiamante in correità che un giudice si possa trovare sulla strada, senza possibilità di equivoci. Che poi lui abbia dei vantaggi giganteschi, con riferimento alla legislazione premiale, questo lo dice la legge. Infatti, il collega, nell’esposizione preliminare, molti mesi fa, fece notare che questo è un caso unico nella storia giudiziaria italiana e forse di tutto il mondo, perché abbiamo uno, reo confesso di sedici efferati duplici omicidi, il quale non si è fatto neanche un giorno di carcere, ma è sottoposto… più che sottoposto direi è avvantaggiato, da un programma di protezione. E allora, articolo 9 del decreto legge 15 gennaio del ’91, numero 8, convertito in legge 15 marzo ’91, numero 82: “Misure, oltre che di protezione,” – queste cose riguardano il Lotti, e della sua condizione di vita attuale – “di assistenza nei confronti del collaboratore e dei suoi familiari” – qui familiari non ce n’è, quindi – “che siano in pericolo per le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, relativa ai reati indicati all’articolo 280 Codice penale.” Tra cui c’è evidentemente anche l’omicidio. Poi, il Sottosegretario agli Interni, senatore Murmura ha dichiarato in un articolo sul Corriere della Sera del 12 febbraio ’93, dice: “Si tratta di un contratto a termine, quello di collaborazione, è chiamato un contratto a termine. Con le firme dei contraenti: quella del collaboratore di Giustizia, cosiddetto pentito, e quella di un rappresentante dello Stato. Che prevede uno stipendio base” – questo l’ha dichiarato nel ’93 – “intorno al milione e mezzo-2 milioni” – intorno a 1 milione e mezzo-2 milioni, si parla di cinque anni fa – “cui si aggiungono altri contributi per il familiari…” che a noi non interessa. Poi, articolo 13 del decreto legge citato, 15 gennaio ’91, numero 8, prevede: “Custodia in luoghi diversi dal carcere per persone arrestate, fermate o in custodia cautelare per gravi e urgenti motivi di sicurezza, per il tempo necessario a definire il programma di protezione.” Ecco perché non ha mai fatto neanche un giorno di carcere, perché fin dal primo momento “custodia in luoghi diversi dal carcere”. Ancora. Dunque, l’articolo 13-bis, Commi 1 e 2, inseriti dall’articolo 13 decreto legge 306 del ’92: “Custodia in luogo diverso dal carcere, o speciali modalità esecutive nel caso di misure alternative per persone, in esecuzione di pena o di misura di sicurezza detentiva, e anche prima dell’esecuzione, per il tempo necessario alla definizione del su indicato programma.” Poi, articolo 13-ter del decreto legge che ho citato prima: “Applicazione” – questa è molto interessante – “di qualsiasi” – qualsiasi – “misura alternativa al carcere, nonché ammissione al lavoro esterno, concessione di permessi premio in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle sui limiti di pena, per detenuti e internati ammessi al programma di protezione e assistenza.” Poi c’è un commento del Consiglio Nazionale di Magistratura Democratica, prime osservazioni sul decreto legge – sono Giudici costoro – 306 del ’92, in Critica del Diritto, numeri 4 e 5, pagina 30 che dice – molto significativamente, sono i Giudici stessi a questo punto, eppure sono coloro che dovrebbero essere più contenti, in qualche modo gli si allevia il lavoro, favorendo il pentitismo. “Si intrecciano” – dice la Magistratura Democratica – “deroghe al regime carcerario ordinario, caratterizzate dall’esclusivo scopo di garantire l’incolumità del collaboratore con misure premiali estreme in favore di chi sia stato condannato” – anche all’ergastolo – “in genere, di persone pericolose.” Continua: “Quel che appare inaccettabile è lasciare tale normativa sostanzialmente indeterminata con riferimento al quantum…”, questo ce l’ha confermato anche il Pubblico Ministero; dice: ‘io non so nulla, dipende dall’Autorità’. Quest’Autorità mi fa venire alla mente “Il processo” di Kafka. E’ un’Autorità ministeriale che decide per i motivi che noi non conosciamo; in realtà chiede il parere anche al Pubblico Ministero quando decide 1’Autorità. Questo prevede la legge. Dice: che decide quanto mantenere queste misure, quando revocarle, quando… Ecco. Beh, certamente, voglio dire, le revocherà subito nel momento in cui Lotti, in estrema ipotesi proprio subordinatissima, ci venisse a raccontare – faccio un’ipotesi di scuola – che si è inventato tutto. Lì è sicuro, eh. Allora protezione non ce ne sarebbe più. “Quel che appare inaccettabile” – dice la Magistratura Democratica – ” è lasciare tale normativa sostanzialmente indeterminata con riferimento al quantum del trattamento di favore; rimettendone la determinazione al Giudice, laddove si tratta di scelte politiche da effettuare in maniera pubblica e chiara, al duplice fine di consentire le doverose valutazioni dell’opinione pubblica… “ – e voi siete anche l’opinione pubblica, non solo i Giudici di questo processo –“e di offrire ai potenziale collaboratori un chiaro quadro di riferimento.” “Conclusivamente, si intrecciano così, deroghe a regime carcerario e a regime della custodia cautelare con misure premiali estreme, fatte di compensi in denaro, riduzioni di pena e di sostanziale esenzione dalla pena.” Perché è inutile dire 21 anni, se poi, tanto, il carcere non lo vede. Dice: ma lo potrebbe vedere. Ma intanto non lo vede. E non dipende da noi, non dipende da voi, se lo vede. “… con misure premiali estreme fatte di compensi in denaro, di riduzioni di pena, di sostanziale esenzione dalla pena. Il tutto finalizzato, nell’intenzione del Legislatore, a trasformare stabilmente l’imputato in negoziatore di verità processuali.” Relevatio ab onere iudicandi. Lui si mette al vostro posto e giudica per voi. Lo ha detto lui chi sono i colpevoli. “…negoziatore di verità processuali. O come meglio dice il Marini: in un “professionista della verità.” Poi vedremo che la verità del Vanni è di bassissima lega, eh. Comunque, tanto per ultimare l’aggiornamento sulla legislazione premiale, come si dice oggi navigando su Internet ieri mattina è emerso – quindi è proprio aggiornatissima, a meno che non sia cambiato qualcosa nelle 24 ore è questa la situazione – “Quadro sintetico delle modificazioni apportate dalla legislazione di emergenza. Ipotesi prese in considerazione nel testo modificato del D.L., che ho citato prima, 306/92, così come convertito.” Tra le ipotesi, ovviamente, anche omicidio, articolo 575 Codice penale. Allora: “Permessi premio. Concedibilità in deroga a tutte le vigenti disposizioni per pentiti con programma di protezione. Affidamento in prova al servizio sociale ordinario. Concedibilità in deroga a tutte le vigenti disposizioni per pentiti con programma di protezione.” Ancora: “Concedibilità in deroga a tutte le vigenti disposizioni per pentiti con programma di protezione”. Beh, l’ha ripetuto. Poi: “Detenzione domiciliare.” Tutte cose che non c’entrano niente col carcere. “Concedibilità in deroga a tutte le vigenti disposizioni per pentiti con programma di protezione.” Poi, ancora: “Speciali modalità di esecuzione…” sai, in Italia il linguaggio burocratese di cui si parla tanto male sopravvive, emerge, come le bolle d’acqua, quotidianamente. “Speciali modalità di esecuzione.” E che sono? Sicuramente carcere non è, questo è importante. “Speciali modalità di esecuzione in via di urgenza per pentiti in attesa del programma di protezione su autorizzazione del Procuratore Generale.” Poi finisce: “Regime di semilibertà. Concedibilità in deroga a tutte le vigenti disposizioni per pentiti con programma di protezione.” E anche qui: “Speciali modalità di esecuzione in via di urgenza per pentiti in attesa del programma di protezione su autorizzazione del Procuratore Generale.” E il Decreto Legge 30 6 del 92, di cui è un riassunto quello che vi ho letto, appunto, agli articoli 13, 13-bis e 13-ter dice esattamente, in sostanza – è inutile che vi legga la normativa, i riferimenti normativi sono questi – dice le cose che ho cercato di esemplificare testé. Quindi, quando il Magistrato – Cassazione, Sezioni Unite – si ritrova a dover fare, con riferimento a Lotti, con riferimento a questo processo, una pregiudiziale preliminare disamina, come insegna la Suprema Corte, Sezioni Unite, disamina della personalità del dichiarante e delle sue condizioni socio-economiche e familiari e delle motivazioni che possono aver determinato la sua risoluzione di – tra virgolette – collaborare, si ritrova di fronte a queste evidenze; di fronte a queste evidenze che sono dei macigni, eh, sono dei macigni questi. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Cioè, intanto c’è un primo giudizio preventivo: Lotti persona, sotto un profilo della credibilità, negativa. Persona ne-ga-ti-va. Non si può dire persona indifferente o positiva: negativa. Anzi, la più negativa possibile. Sembra proprio un’ipotesi di scuola. Chi è il peggiore chiamante in correità? Lotti. E io metterei nelle antologie giuridiche la definizione che magnificamente ne ha dato il rappresentante dell’accusa. Quale rischio, un’altra valutazione che devono fare i Magistrati, che deve fare il Giudice per valutare, per esempio, come ho già detto in più di un’occasione, il sentimento di catartica liberazione che è alla base della scelta collaborativa, è di valutare i rischi che corre questa persona. Beh, non c’è dubbio. Pensiamo che questa normativa fondamentalmente è stata immaginata per le ragioni politiche -rispettabilissime su un piano politico, su un piano giuridico molto meno – che riguardano però fenomeni che nulla hanno che vedere con questo processo: la criminalità organizzata, la criminalità mafiosa, camorristica. Che si potrebbe dire qui? Che questo riguarderebbe la criminalità merendistica. Che qui c’è un’associazione per delinquere di stampo di che! Questo processo si inserisce in questa normativa. E certamente, chi collabora in quei contesti, in questi contesti di anti-Stato, perbacco, se corre dei rischi. Eh, ma li corrono e noi lo vediamo; è un dato sotto gli occhi di tutti. Vendette trasversali, parenti che vengono ammazzati, cambiamenti di generalità, migrazioni forzate all’estero. Quel poverino che – lui non era neanche un pentito, era un testimone; mi ha sempre impressionato, ci hanno fatto un libro sopra, un film anche – che vide gli assassini del povero giudice Livatino. Ma cosa non ha passato e non sta passando lui e la sua famiglia, per esercitare un diritto che ha la stessa natura di quello che voi state esercitando in questo momento. Altro che medaglie d’argento al valor civile, eccetera. Lì sì che ci sono i rischi. Pensiamolo per i pentiti, anche questo è un dato di costante evidenza. Ma qui che rischi corre il Lotti? Scusate, ma qui qualcuno dovrà pur rispondere a questa domanda. I rischi di che? Cosa ha messo sul piatto della bilancia per dire: guardate, mi dovete credere, perché sto andando contro un sentimento naturale dell’uomo, ancestrale, va bene, che è quello di difendere se stesso; che è quello di negare le proprie responsabilità. Sono così catarticamente risoluto che io sto mettendo la mia vita, i miei beni, i miei affetti sulla bilancia. Non ha messo niente. Ha messo i suoi 90 chili, un po’ malandati, sulla bilancia, per dire: trattatemi meglio, compratemi un paio di scarpe nuove, mandatelo al ristorante. Questa è la personalità con cui vi dovete trovare, che si impone sulla strada del vostro giudizio come un macigno. Già lui ce l’ha quest’aspetto un po’ carnoso. Ma questo è un macigno. “Genesi della sua confessione e della sua accusa.” Continuo, eh. Questa è Cassazione. Lasciamo perdere il requisito del disinteresse per le ragioni che abbiamo detto. È cambiata anche la Giurisprudenza in questo proposito. E poi passiamo, ecco, alla seconda operazione logica che deve svolgere il Giudice nell’esaminare questa prova gravata di sospetto, no, come abbiamo detto prima; questa prova infida. “La seconda operazione logica è quella di valutare l’intrinseca consistenza delle dichiarazioni.” Cioè: abbiamo visto la tua personalità, abbiamo visto le tute motivazioni presenti, prossime e remote, abbiamo visto tutte queste belle cose – o bruttissime cose, per la verità – adesso andiamo a vedere cosa ci dai, che merce ci dai. Cosa ci racconti? Quello che ci racconti è coerente, è dettagliato, è verosimile? – Verosimile, cioè ha almeno l’apparenza della verità? – È spontaneo? prima di tutto. Perché fra i requisiti c’è anche la spontaneità, eh. Anzi, cominciamo proprio dalla spontaneità. “Spontaneità, precisione, coerenza, costanza.” Eh, qui, Signori, spontaneità… L’unica cosa spontanea che ho trovato, a proposito del Lotti, è la sua telefonata alla Filippa Nicoletti. Del resto, che la risoluzione a parlare da parte del signor Lotti non sia stata spontanea, bensì provocata, e questo è un merito che il rappresentante dell’accusa, nonché capo degli inquirenti ha rivendicato al suo Ufficio. Nella sua esposizione finale egli ha detto e sottolineato con toni a volte, mi sia consentito, un po’ enfatici, dice: ‘noi, di fronte alle nostre contestazioni. Ma quella sera agli Scopeti c’era una macchina, quella sera agli Scopeti…’, che poi questo è: “le nostre contestazioni”. Parte tutto da Ghiribelli e Galli, si chiama? che io l’ho letta la loro testimonianza, riguardatela, eh, siamo alle solite. Paragonatela con l’indizio con riferimento al processo Bozano e guardiamo la differenza. Però, sembrerebbe che il Lotti, di fronte a una contestazione – quindi non è spontanea la sua – di questo peso indiziario, di questo calibro, sia crollato. Infatti non dice, Pubblico Ministero, “m’hanno imbrogliato”, dice “m’hanno incastrato”. E quindi sulla spontaneità siamo tutti d’accordo che spontanea non è stata. Ma il fatto che la risoluzione a parlare, da parte del Lotti, non sia stata spontanea è un ulteriore elemento negativo. Sì, perché sarebbe stato molto più positiva, nella valutazione delle sue dichiarazioni, come insegna la Suprema Corte Sezioni Unite, se le sue dichiarazioni fossero state invece… se l’origine fosse stata spontanea, e neanche questo abbiamo qui. Eh, ma c’è di più. Spontaneo significa non correlato a domanda. Cioè, io vengo e parlo. Invece no. Qui ti si fa una caterva di domande, ti si mette sotto, ti si incastra… termine proprio poliziesco giudiziario per dire: sei senza una via di uscita, sei schiacciato dalla convergenza e dal legame logico delle nostre contestazioni, per cui sei senza via di uscita, questo significa incastrato. Imbrogliato invece significa ingannato. E vediamo un po’ cosa ci dice Lotti, finalmente quando non parla con i poliziotti, finalmente quando non parla con i Giudici, finalmente quando non parla con i Pubblici Ministeri, finalmente quando non parla con gli avvocati; ma lui, di sua iniziativa fa questa telefonata, è lui che chiama, ovviamente, perché è in un luogo nascosto, per un bisogno – ma perché non glielo vogliamo riconoscere a quest’uomo, umanissimo, Dio Buono! -: sfogarsi con un’amica. E cosa gli va a dire? Leggerò solo alcuni brani, che però sono funzionali alla spiegazione, l’unica possibile, della genesi indotta della confessione e soprattutto della chiamata in correità del Lotti. Dunque, a un certo punto dice, pagina 4: “Giancarlo: Mah, ormai l’ho de…” Dice la donna: “Io che ti devo dire? Ma è vero quello che hai detto?” Gli dice. “Giancarlo: Di che?” “Donna: Che l’hai visto ammazzare?” “Giancarlo: Mah, oh, ormai” – primo ormai – “ormai l’ho detto, un posso mia torna’ indietro.” La donna insiste: “Ma è vero?”. E il buonsenso comune si ritrova, eh; non c’è bisogno di avere la laurea in legge o in astrofisica nucleare per porsi dei dubbi. “Ma è vero?” – insiste la donna – “Giancarlo, è vero?” “Giancarlo: Ormai l’ho detto” – due – “e mi hanno imbrogliato loro, sennò… Io li ho visti…” Allora, ha detto due volte ormai. La donna insiste: “Ma tu devi dire se è vero.” — insiste, fa sanissimo… questa donna, fra l’altro, se non sbaglio è una prostituta, uno può pensare una serie di luoghi comuni, invece no, è una persona che esercita il giudizio. Per la terza volta dice: “Ma tu devi dire se è vero oppure no.” In fondo non ha l’interesse che avete voi, che siete Giudici, ad esercitare il dubbio. E lui dice: “Eh, sì, eh, ormai” – tre “ormai” – “l’ho bell’e detto, che gli vo a dire ora?” Come a dire: come fo a cambiare versione? Tre “ormai”, eh. “Donna: Ma tu a me” – insiste, altro che il Pubblico Ministero, questa donna, porca miseria! –“Ma tu a me devi dire se è vero. “ Quarta domanda della donna e lui dice: “Ormai – quarto ormai – gl’è vero, c’è poco da… Donna: – numero 5 – “È vero?” Glielo chiede per la quinta volta: È vero? E’ vero?‘ Cinque volte. E lui: “Eh…” Quattro ormai e un “imbrogliare”. Continuare con gli “imbrogliare”, lo dice tre volte. “Incastrato” non lo dice mai, “imbrogliato” lo dice tre volte. A pagina seguente dice: “No, m’hanno imbrogliato su questo fatto qui, sennò io, eh… sapevo su uno solo, uno solo e basta.” E poi lo dice cosa sapeva, perché la donna gli dice: “Di uno solo sapevi?” “Eh, oh, quando mi fermai lì vetti la tenda, c’era la tenda.” “Ah.” Dice la donna. “Giancarlo: E c’era du’ persone.” “Eh.” Dice la donna. E sentite questa: “Giancarlo: quell’altro” – mi immagino si riferisca al Pucci – “l’ha riconosciute subito, io non l’ho riconosciute.” La prima volta, e l’unica, che non parla a gente con la toga nera addosso, a funzionari pubblici, eccetera, eccetera. E ha detto già due volte “imbrogliato”. Pagina 8: “Giancarlo…” E comincia a introdurre un argomento che poi andrà illustrato, secondo l’opinione modestissima di questo difensore. “Giancarlo:” – e qui fa lui la domanda alla donna, è inquieto, non si limita a rispondere alle domande di questa donna: ‘ma è vero, ma è vero?’ No, a lui gli brucia dentro qualche cosa e gli dice: “Giancarlo: Ma sai… ma sai icché gli ha detto questo Mario, il Vanni?” Questa cosa gli dà fastidio. “Donna: Sì.” “Giancarlo: Dice che sono stato io a fare gli omicidi.” Dice che sono stato io a fare gli omicidi. “Donna: Chi è stato? Te?” “Giancarlo: No, l’ha detto lui, eh, l’ha detto lui. “ Come dire : non sono stato io a fare… l’ha detto lui. E insiste, poi: “Giancarlo: Poi mi voglian domandare le cose dell’83, dell’82, o come fo a sape’ queste cose?” “Donna: Ma poi per me tu sei stato una brava persona.” Insiste: “Giancarlo: Ma poi gl’hanno visto una macchina, dice a Scandicci, a Giogoli, e io che ne so io. Per l’appunto la mi’ macchina l’è da tutte le parti.” Ha ragione: “Per l’appunto la mi’ macchina è da tutte le parti. Io se vo a trova’ una cugina un lo so.” Dice: “Ma bisogna tu dica la verità.” Insiste: “E quello che ho detto ho detto. Di più quello che ho detto, diverso un lo posso dire, ora. Eh, ormai, un c’è più nulla da fare.” E siamo al quinto “ormai”. Tenete presento il riferimento che ha fatto a Vanni, perché questo interessa più specificatamente chi vi parla. Ha già detto due volte: “M’hanno imbrogliato, perché sennò io… M’hanno imbrogliato…” Pagina 11, terza volta: “Giancarlo: Eh, ormai io ho detto più icché un l’è.” Ho detto più icché un l’è. Ha detto prima che agli Scopeti vide la macchina, due persone ma lui non le riconobbe. Poi dice: “…ho detto più icché un l’è, e sono stato imbrogliato, guarda.” Le dice. “…e sono stato imbrogliato, guarda, guarda.” Più di così che può dire? I suoi strumenti sono questi. E poi toma al Vanni perché è un pensiero ricorrente questo. Questo è un tarlo che lo corrode. E allora a un certo punto dice, verso la fine: “Ma lui, mi disse l’avvocato” – non si sa chi –“se tu vai lì, qualcosa in più” – è dura questa –“qualcosa in più bisogna tu dichi: l’83, l’82, l’81. O come fo a sape’ tutte codeste cose?” “M’ha detto l’avvocato: ma se tu vai lì, qualcosa in più…” Ce lo vogliamo porre il problema, Signori, se lui qui lui sta mentendo oppure sta dicendo la verità, perbacco Perché se qui vien fuori che è probabile che lui stia dicendo la verità, qui c’è tutto il processo, eh. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: E poi conclude col Vanni: “Giancarlo: E perché” – questo è un tarlo, dice: ‘poi c’è il Vanni che dice li ho ammazzati io – “E perché quest’altro dice che li ho ammazzati io?”  Donna: “Ma chi? Il Vanni?” Dice Giancarlo: “Sì.” – Giancarlo – “Dice che li ho ammazzati io.” Donna: “Lo dice Vanni?” “Giancarlo: C’era scritto.” Scritto, ora non si limita più a riferire cose che gli hanno detto. L’ha visto scritto o gli hanno fatto vedere uno scritto. Noi sappiamo tutti, Signori della Corte, che non risulta da nessuna parte scritto, che il Vanni abbia detto che Giancarlo è stato lui a uccidere, eccetera. “Giancarlo: C’era scritto, come dicevano quelli che mi accompagnano per andare.” E chi sono quelli che l’accompagnano per andare? “Eh?” Dice la donna. “Giancarlo: Al colloquio, alla Questura, loro mi hanno detto” – la seconda volta – “che Vanni dice che li ho ammazzati io e mi hanno fatto vedere anche uno scritto. E l’avvocato dice che io devo dire di più: dell’83, dell’82.” “Giancarlo: Eh, loro dicono, in quella maniera dice: ‘tu sei stato te.’, ‘ah,’ – dico io – ‘sono stato io?’.” E la donna dice: “Ma guarda, io t’ho conosciuto dall’81, sono quindici anni che ti conosco, tu non eri capace di ammazzare.” E fermiamoci qui. Allora, questo riferimento al Vanni: “loro mi dicono…”, non sono… cioè, questa è una delle cose più antiche che esistano, si chiama, è studiato in psicologia, ci sono studi, si chiama “il dilemma del prigioniero”. È uno degli strumenti polizieschi, di indagine -non li commento dal punto di vista… non mi interessa, riferisco un dato storico – più antichi che esistano. E in che cosa consiste? Gulotta – dov’è il riferimento? Eccolo qui – Gulotta: “Trattato di Psicologia Giudiziaria nel Sistema Penale” a cura di Guglielmo Gulotta, Giuffré 1987, capitolo XV. Il titolo del capitolo è: “Confessione spontanea, confessione indotta e autogiustificazioni”. Ecco, dice così: “Quando gli imputati sono due,” – pensiamo, in quel momento sono sotto torchio Vanni e Lotti –“talvolta la Polizia li usa” – io riferisco, eh –“uno contro l’altro, con tecniche che ricordano lo schema del ‘dilemma del prigioniero’, in quanto basati sul tentativo di far credere a ciascuno dei due che l’altro ha confessato accusandolo di correità, sfruttando la reciproca mancanza di fiducia.” Allora, io ho trovato questa spiegazione a quella telefonata del Lotti, non ce ne sono altre. Questo tarlo che lo rode: ‘ma guarda, adesso c’è anche il Vanni che dice che li ho ammazzati io’, ‘o guarda, chi te l’ha detto?’, ‘Me l’hanno detto quelli che mi accompagnano in Questura’ – Polizia, no? – ‘per gli interrogatori. M’hanno detto c’è anche uno scritto’. Come direbbe il Pubblico Ministero? Io ve la porgo così, ve la presento così. Però è scientifica la cosa. Non è correlata a domanda, è spontanea, perché vuol dire che questa cosa veramente il Lotti ce la sta dicendo per la prima volta, non la sapeva nessuno, eh. E si chiama “dilemma del prigioniero”. La fiducia, uno così, abbiamo sentito che responsa… la personalità del Lotti qual è. Figuriamoci se quello poteva avere fiducia che il Vanni… dice: ‘no, uno come il Vanni, no, non può mai avere detto una cosa del genere ‘, e non sarebbe cascato nel tranello. Dice: ‘guarda Vanni t’ha accusato, ha detto tu sei te che hai ammazzato…’. Un altro che avesse avuto grande fiducia – invece no, si sfrutta la reciproca sfiducia – avrebbe detto: ‘no, ma io non ci posso credere’. Ma ci vorrebbe una fiducia da amanti, non so come, per dire: ‘no, non è possibile mi abbia accusato, lui o lei non lo farebbe mai’; insomma, sono cose molto rare. E questa storia del “dilemma del prigioniero”, Signori della Corte, riemerge tranquillamente all’udienza dell’ll dicembre del ’97, fascicolo 64, pagine 56 e seguenti. Dove c’è il collega codifensore il quale interroga il Puc… il Lotti proprio su questo, dice – a proposito del Pucci -dice: “Gli dissero che il Pucci aveva raccontato queste cose sì o no?” Imputato Lotti: “Gl’è stato interrogato anche lui?” Perché c’è anche Pucci, no. “Ma a lei gliele dissero?” “Mica insieme siamo stati interrogati.” “Ma glielo dissero a lei che Pucci aveva detto queste cose sì o no?” Risposta: “Sì.” “Oh, benissimo.” – dice – “Prima che lei raccontasse di Baccaiano, qualcuno le disse che era stata vista la sua macchina lì a Baccaiano, sì o no?” “Se c’era la macchina mia?” Dice Lotti. “Sì.” “Sì.” “Quindi, qualcuno le disse se era stata vista la sua macchina lì a Baccaiano.” Avv. Nino Filastò: “E questo anche per quello che riguarda l’omicidio di Vicchio? Le dissero che la sua macchina era stata vista diverse volte, sì o no?” “Dissero chi?” “Dissero gli inquirenti, a lei Lotti, se vicino Vicchio era stata vista la sua macchina diverse volte, sì o no?” Risposta di Lotti: “Sì, me lo dissero, sì.” Quando dice: ‘oh, hanno visto la macchina dappertutto’ – dice alla Filippa – ‘ma è mai possibile, la mi’ macchina sembra che sia dappertutto’. Si permette anche l’ironia, guarda. Vuol dire che è esasperato veramente. Avv. Nino Filastò:“Questo anche per quello … ?” “Sì. ” “Allora, qualcuno le disse o non le disse che Vanni l’accusava? Che diceva che lei era uno di quelli che facevano questi delitti, cioè. E vero o no che le hanno detto che Vanni ha accusato lei di essere l’omicida.” Imputato Lotti: “No, questo un gl’è vero nulla, quello che ha detto lui un gl’è vero nulla.” “Quello che ha detto lui”, cioè che io sono colpevole. E il Presidente ritiene chiusa. Si insiste invece, insiste l’Avv. Nino Filastò: “No, no” – dice – “voglio sapere se qualcuno gli disse che Vanni l’accusava. Diceva agli inquirenti, quando lei parlava con quelli che la interrogavano, queste persone gli dissero: ‘guarda Lotti, che Vanni dice che tu c’eri te, tu hai fatto queste cose, che sei te il mostro’, mentre ti interrogavano.” Imputato Lotti: “Ma c’era anche lui.” Avv. Nino Filastò: “Ah, ma glielo dissero sì o no?” “Un so, un saprei come dire.” “Glielo dissero sì o no? Risposta: “Sì.” Poi il Presidente, giustamente allarmato – io l’ho interpretato così, Presidente, perché per guanto riguardava il collega, l’interrogatorio, l’esame era finito – da questo spiraglio, che può aiutare a capirlo in modo decisivo questo processo, prende in mano lui l’esame, e dice il Presidente: “Lei ha detto che gli aveva già riferito che Pucci aveva parlato, che avevano visto la macchina sua lì agli Scopeti. Ora lei prima ha detto… ha parlato del Vanni, che il Vanni a sua volta le ha detto qualche cosa su questi delitti. Gliel’hanno detto la Polizia o non gliel’hanno detto?” giustissima la domanda – “Perché lei prima dice sì poi dice no, qual è la verità?” Imputato Lotti: “Come? Un ho capito bene.” Presidente: “Quando cominciò a fare le prime domande…” Imputato Lotti: “Interrogavan me?” Presidente: “Quando lei cominciò a ammettere i fatti, no, io non lo so quando è stato, comunque…” Lotti: “Sì.” Presidente: “Lei cominciò ad ammettere i fatti, lei, gli hanno parlato del Vanni a lei?” Imputato Lotti: “Sì”. Presidente: “La Polizia, chi l’ha interrogata, cosa gli hanno detto del Vanni?” Risposta – attenzione, eh, qui sta rispondendo al Presidente non alla Filippa “Quello detto ora all’avvocato.” “La Polizia, chi l’ha interrogata, cosa gli hanno detto del Vanni?” “Quello detto ora all’avvocato. E che vi ho letto prima.”, Presidente: “Cioè, che cosa?” Poi interviene il collega: “Mi sembra chiaro.” Pubblico Ministero : “No, facciamoglielo dire perché non è per niente chiaro.”, Presidente: “Facciamoglielo spiegare.” Presidente: “Non so come farglielo capire. Allora, quando la Polizia lo interrogò…” Imputato Lotti: “Si.” “…le ha parlato del Vanni? Le ha riferito qualche dichiarazioni che avrebbe fatto il Vanni su questo omicidio o no?” Imputato Lotti: “Sì.” “E cosa gli dissero? La Polizia a lei. No, no dei delitti, del Vanni, del Vanni.” Lotti: “Non ho capito.” “Gli hanno parlato, prima che li parlasse, facesse queste ammissioni del Vanni, che avrebbe fatto alcune dichiarazioni il Vanni? Gliel’hanno detto, la Polizia, sì o no? E se gliel’hanno detto che cosa gli hanno detto? Questo voglio sapere io.” Lotti: “Ora a di’ la verità un mi ricordo di preciso che m’hanno detto.” Presidente: “Se c’è stato anche lui, se aveva affermato anche lui che c’era stato o non c’era stato non lo so. Cosa hanno detto?” Imputato Lotti: “No, che c’era stato… come in queste cose qui?”, Presidente: “Eh.” Lotti: “Sì.” Presidente: “Cioè, se c’era stato anche il Vanni.” Imputato Lotti: “Sì, Presidente: “Questo gli hanno detto?” “Come m’hanno spiegato loro.” – risponde il Lotti – “Come mi sono spiegato io, non tanto bene.” E quindi, voglio dire: “Quello che ho detto prima all’avvocato.” “Cosa le ha detto la Polizia?” “Quello che ho detto prima all’avvocato.” “Quello che ho detto prima all’avvocato”, il ‘’dilemma del prigioniero”. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Ci sono tutti gli elementi, eh, queste non sono congetture. La famosa differenza che si diceva prima tra indizi e sospetti, tra indizi e suggestioni, eh, tra indizi e congetture, elucubrazioni. No, no, questi sono dati oggettivi. C’è da valutare la telefonata alla Nicoletti, stabilire il grado di spontaneità, questa sì, che ha quella telefonata. La fa lui. È lui che introduce l’argomento Vanni che avrebbe parlato e che gli ha detto la Polizia che il Vanni avrebbe accusato lui. Dovrà, inevitabilmente, la sentenza affrontare anche questo passaggio, perché a seconda di come si affronta questo passaggio e a seconda di come si motiva quest’unica occasione in cui il Lotti ha parlato per uno sfogo, finalmente, umanissimo, a seconda di come si motiva si trova la chiave. Io invece voglio fare un’ultima osservazione di tipo lessicale. Nell’enfasi della difesa delle proprie tesi e delle proprie architetture, il Pubblico Ministero, sicuramente in buona fede, è fuori discussione, in più passi della sua orazione, invece di… nel riferire proprio queste parole del Lotti, non vi ha detto: ‘Lotti ha detto… io sono, guarda’ -quel guarda è bellissimo – ‘guarda Filippa, m’hanno imbrogliato perché sennò, eh, non ero qua io ‘. No, dice: “M’hanno incastrato, mi hanno incastrato.” La Polizia è stata straordinaria, m’ha incastrato e io non ho potuto fare più niente, ho dovuto di… ho dovuto confessare perché mi hanno incastrato. Ora, vi accennavo prima che, io che non sono toscano ho sempre notato questa estrema puntualità di significati e di linguaggio, anche da persone incolte, va bene, fin dai primi tempi della mia permanenza in questa felice regione. Lo sarebbe di più se non ci fossero stati questi omicidi. Dico, quindi non è possibile, non posso credere che un toscano usi la parola “imbrogliare” nel senso di “incastrare”. Perché imbrogliare, dal vocabolario della lingua italiana della Treccani, significa: “Imbrogliare: riferito a persona, significa confonderle le idee…”. Dice: ‘m’hanno imbrogliato e m’hanno confuso le idee’. “O farle perdere il filo del ragionamento. Raggirarla.” ‘E m’hanno imbrogliato guarda e m’hanno raggirato, guarda’. “Dare ad intendere cose non vere.” ‘M’hanno detto che c’era lo scritto, che il Vanni m’accusava e m’hanno imbrogliato guarda. Ora c’è anche codesto che dice…’ “Ingannarla, soprattutto per trarre, con suo danno, un proprio vantaggio materiale.” Questo significa imbrogliare. Quindi, siccome lui dice imbrogliare, lo dice tre volte, invece ingannare non lo dice mai… incastrare pardon, non lo dice mai, io devo credere che voglia dire questo. Mentre incastrare significa cosa completamente diversa, proprio siamo agli antipodi Signori. Incastrare significa una cosa, certo sì, funzionale alla tesi del Pubblico Ministero, ma noi qui non stiamo a ragionare di tesi, stiamo a decidere del destino di una persona. Quindi, in questo caso anche le parole hanno un significato, forse molto più spontaneo, molto più pregnante delle costruzioni. Incastrare, dice il vocabolario della lingua italiana edito dalla Treccani, significa: “Mettere nei guai o in una situazione da cui è difficile uscire. Esempio: incastrare un criminale.” Eh, certo che il Pubblico Ministero… ‘m’hanno incastrato’, è un linguaggio che gli è consono. Quante volte nella sua vita professionale, in tutti i successi che ha conseguito, si è trovato in questa situazione: di avere incastrato un criminale. E quindi gli è venuta spontanea, in buona fede. Solo che non è questo il pensiero del Lotti. Questo deve essere chiaro a voi. “Incastrare un criminale. Trovare le prove necessarie e inconfutabili per farlo catturare. Analogamente un commissario” – guarda, sempre nel vocabolario, eh – “un Giudice abilissimo nell’incastrare un imputato, nel metterlo alle strette con prove e argomenti schiaccianti, che gli rendono impossibile negare la propria colpevolezza.” Eh, allora, siccome invece Lotti non l’ha mai detto ‘m’hanno incastrato’, ma ha sempre detto “m’hanno imbrogliato” e l’ha pure spiegato. Guardate, ha spiegato una cosa che è studiata pure nei libri. Ha spiegato il classico, antichissimo, millenario, plurimillenario probabilmente, da che esiste ima Polizia sarà esistito il dilemma del prigioniero. Se ne pigliano due o tre sospettati… l’ho spiegato prima, non sto a ripeterlo. E questa gli rode, perché lui poverino non le conosce queste sottigliezze. Dice: “Dio bono, m’hanno imbrogliato …” – Lotti dice – “e allora io ho dovuto dire. Poi l’avvocato mi dice ma devi parlare anche di prima”, eccetera. Non torno più sopra, penso sia sufficiente. Dunque, si parlava sempre della attendibilità intrinseca, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, attendibilità intrinseca della narrazione, del racconto. Quindi, abbiamo esaminato l’elemento della spontaneità. Che qui non c’è, evidentemente, anzi qui c’è forse una chiave per capire tutto il processo e comunque per capire che lui non dice la verità. E poi dice, la Suprema Corte: bisogna che questa narrazione, perché acquisti corpo, perché acquisiti serietà, credibilità, da parte del Magistrato, sia articolata, ovvero dettagliata, o circostanziata, o ricca di particolari. Anche qui, per una ragione elementare, di buonsenso comune. Perché quando io vengo a farvi un racconto, se il mio racconto è ricco di particolari è più facile il riscontro del mio racconto, no? E quindi è più facile riscontrare e dire sì, è vero. Chi dice la verità, dice tutti i particolari possibili e immaginabili. Se invece si sta addentrando su un terreno minato, magari con una fantasia abbastanza limitata, di particolari ne racconta pochi. Perché ogni particolare per lui è un possibile tradimento che può rivelare e rilevare la sua falsità. E infatti nei racconti, come vedremo, del Lotti e anche di Pucci, proprio di particolari ce n’è tre o quattro e, guarda caso, questi particolari che loro raccontano sono, oscillano tra l’inverosimiglianza, la contraddizione, la falsità oggettiva e conclamata, in base alle risultanze di questo processo e poi qualcuno di questi, come ho già detto prima, supera abbondantemente il limite del ridicolo. Quindi, dice la Suprema Corte: “verosimiglianza è un altro criterio per la intrinseca credibilità del racconto. Cioè a dire, il racconto deve essere simile al vero” – verosimile, simile al vero –“deve avere l’apparenza della verità. Deve essere preciso, deve essere coerente.” Ecco, e allora a questo punto questo difensore entra nel merito del racconto del Lotti, perché è una fatica che bisogna assumersi. Mah, io mi sono permesso di non seguire la strada che è stata seguita fin qui, cioè che è stata quella di fare l’esegesi del… l’ermeneutica del “pensiero lottiano”, no. Io mi sono riletto tutti i verbali, in particolare dell’incidente probatorio e dell’esame dibattimentale. Anche per evitare la prevedibile osservazione del collega rappresentante dell’accusa che, falsità… no, falsità no, diciamo contraddizioni, o inverosimiglianze, o imprecisioni sarebbero più che ammissibili, perché, trovandoci di fronte a una strana figura di imputato-testimone, il quale è liberato dall’onere di giurare di dire la verità perché non è un testimone e quindi può dire qualunque cosa, ma essendo anche stato coinvolto nei fatti può benissimo dire le cose a spizzichi e bocconi, tanto per capirsi, quindi le reticenze possono essere più che ammissibili, considerato che avrà fatto magari 30 dichiarazioni. Finché poi non arriva il momento proprio catartico, autoliberatorio, in cui veramente, come un fiume in piena – con tanta acqua in questo fiume, non poca come nel fiume di Vicchio – uno dice tutto, no, racconta tutto. E proprio addirittura c’è una sovrabbondanza, una ridondanza di particolari, eccetera. Allora io, per evitare che anche ai Signori Giudici rimanga questo dubbio: insonnia, dice, va be, ora è troppo facile giocare al tiro a segno, prendendo un oligofrenico, perché di questo si tratta. D’altra parte il “mostro di Firenze” non è mica detto che debba essere un laureato in astrofisica nucleare, può anche essere un oligofrenico, in una astratta, ipotetica costruzione eh. Poi vedremo che qui invece non è così. È un’opinione. Si esprime in questo modo. Può benissimo avere una cognizione dello spazio e del tempo non raffinata e magari educata dall’esercizio mentale, come possono averla altre persone. E quindi è troppo facile per gli avvocati sparare addosso e dire: qui avevi detto bianco, poi hai detto giallo, poi… No. Lasciamo perdere. Guardiamo, però, dopo che è maturata questo catartico sentimento di autoliberazione, dopo che finalmente le chiuse si sono aperte e il fiume in piena è debordato dagli argini – non so se sia pertinente questa immagine con riferimento alle scarnissime dichiarazioni del Lotti – guardiamo da allora, guardiamo da lì, perché lì le contraddizioni, lì inverosimiglianze, lì le falsità, lì il ridicolo. Beh, lì si spiega male, perché sennò, insomma, va be, come diceva Robespierre: “voi vi aggrappate alle forme perché avete perso di vista i principi”. Purché abbiamo un fantoccio di testimone, purché abbiamo un fantoccio di correo, qualunque cosa dica, però lui è venuto. Quante volte ve l’ha detto il Pubblico Ministero. Anche questa cosa io non la condivido affatto e non perché sono io, perché non è condivisibile. Siccome è venuto, bontà sua, siccome è stato lì a farsi torturare, poverino, per sei giorni – c’è qualcuno che rischia l’ergastolo, che rischia tutto, il resto, lo scampolo di destino che c’ha -dice, voi vi dovete accontentare di questo. E mi torna sempre alla mente l’attacco, l’incipit: “non dobbiamo affannarci a costruire, a dedurre, a vedere, a capire. No, la situazione è chiara, è oggettivamente chiara, dobbiamo solo” – solo – “verificarla, riscontrarla.” No, Signori. No. Non può essere così: per rispetto a voi stessi e per rispetto alla vostra dignità. La vostra coscienza poi, insomma. Quindi non si può dire: siccome il testimone è venuto… perché questo è stato anche detto, eh. Siccome il testimone è venuto, noi ce l’abbiamo, 80 chili di testimone, un metro e 60 o 70 di altezza, vestito per benino, l’orologino, eh. Siccome l’accusatore è arrivato, poverino, si poteva concludere ” addirittura senza un dibattimento, con un rito alternativo questa cosa. Si poteva mandare all’ergastolo una persona con un rito alternativo. Benissimo. Arriviamo anche a questo. Guardate che riguarda anche noi questo. Le disgrazie nella vita capitano a tutti, sa, sapete… Quindi, è venuto e lì ha risposto, si è fatto torturare da questi cavillosi, da questi “dottor Sottili”, da questi dottori Sottili, da questi spaccacapelli in quattro, come si può dire? Che loro si esercitano, si divertono e vengono anche pagati, tanto. No, non è così, Signori. Non è affatto così. Salviamo le forme e ci dimentichiamo delle sostanze. Voi vi aggrappate alla forma, anzi, voi vi aggrappate alle forme, perché avete perso i principi. Quindi, questo difensore ha esaminato non la forma del testimone, non la forma del chiamante in correità, non la forma massa di carne vestita che viene lì e dice: in questo processo abbiamo un chiamante in correità, in questo processo abbiamo un testimone, Pucci. Questo è un processo regolare. No. Proprio per niente. Questo è un processo di uomini, perbacco! Bisogna entrare dentro. Come dice la Cassazione? È l’operazione più difficile, più alta perché quello che giustifica la scelta dei Giudici togati di fare per professione coloro che giudicano del destino delle persone, quello che vi rende alti è proprio questo: la difficoltà del vostro compito, che non dovete mai perdere di vista, meno che mai voi che lo fate per accidente. Perché non l’avete scelto nella vita di farlo, io insisto su questo. E quindi io ho esaminato invece le dichiarazioni del Lotti. Faccio parlare Lotti. Facciamo parlare Lotti. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Facciamo parlare Lotti nell’incidente probatorio, facciamo parlare Lotti nell’esame dibattimentale. Sentiamo le sue parole sui punti decisivi, su quelli che possono essere i punti decisivi di questa vicenda e vediamo che dice. Non la forma vediamo: vediamo la sostanza. Con una premessa, giusta, di Giurisprudenza anche qui. Perché, come dicevo prima, e come diceva prima anche il riferimento alla Corte Suprema di Cassazione, noi non dobbiamo stare effettivamente a spaccare il capello in quattro, insomma. C’è una persona che ha contro di sé una presunzione di non credibilità, regola positiva di giudizio affermata dall’articolo 192 comma 3 del Codice di procedura penale. Cioè, è una persona che quando si è seduta lì, voi, nella vostra mente, per ragionare correttamente e secondo la legge, dovevate dire: questo per me io non lo credo, intanto. Poi vediamo che succede. Presunzione relativa di non credibilità, eh, attenzione. Non lo dico solo io, lo dice la legge. Quindi dico, e chiaramente però la Giurisprudenza, la Suprema Corte, che si è trovata in queste situazione, che sono le più delicate che si possono presentare in un processo penale, ha detto più volte che sono… anche quella sentenza Sofri che vi ho citato, ha detto che – Sezioni Unite -quindi ha particolarmente valore, di pregio particolare. Dice: “Sono ammissibili, ovviamente, inverosimiglianze e contraddizioni, purché marginali” – purché marginali, ohé – “purché di livello secondario nella ricostruzione del fatto o dei fatti.” E qui la cito la Cassazione perché anche questa, a sommesso parere di questo difensore, un punto chiave di questa vicenda. Questo principio giurisprudenziale è costante. Non si spara proditoriamente, va bene, sull’interrogato. Gli consentiamo di contraddirsi, gli consentiamo di precisare il suo racconto, purché la precisazione non sia però una conseguenza delle contestazioni di chi interroga. Purché la precisazione, l’aggiustamento di tiro non sia però una necessaria precisazione in conseguenza di fatti, acquisiti al processo, che sono in contrasto. Ne dico uno e poi li dirò tutti: a proposito di Giogoli, quando Lotti viene a dire, per l’ennesima volta perché l’ha detto anche nell’incidente probatorio, che i colpi di pistola, nove, furono sparati tra lui e Pacciani da fuori, da fuori del furgone, prima di aprire lo sportello, e poi vi aggiunge anche che, quando è stato aperto lo sportellone, lo sportello di questo furgone, i cadaveri dei poveri ragazzi si trovavano nella parte anteriore, dice non delle contraddizioni, non delle inverosimiglianze, ma delle palesi falsità. Perché esistono dati acquisiti – le perizie medico-legali, i riscontri, i sopralluoghi acquisiti al giudizio, in base ai quali risulta, al di là di ogni ragionevole dubbio, come si diceva prima, che furono sparati due colpi, quelli finali, va bene, all’interno del furgone… questo è il commissario Perugini, eh, che dice: “Li confuse con un uomo e una donna. D’altra parte quando si sbircia nel buio, all’interno di un furgone, dai finestrini impolverati” – capo della SAM per cinque o sei anni, eh, non è uno scrittore così, è un professionista che si è occupato di questo caso – “le persone appaiono confuse. Così li uccise, cominciando a sparare loro da fuori, attraverso i vetri, e finendo il suo massacro dopo essere salito sul furgone.” E perché dice questo il commissario Perugini? Per una ragione che può capire chiunque di noi. Perché due bossoli sono stati trovati sopra o sotto il sedile del furgone. Quindi, allora, quando Lotti si trova di fronte a queste evidenze, i cadaveri erano nella parte posteriore, lo hanno detto i medici legali, lo hanno detto coloro che hanno fatto i sopralluoghi, che fa? Dopo aver detto due solenni castronerie, due solenni bugie, perché chi dice le bugie si chiama bugiardo. E siccome qui si parla di carne viva e di condanne all’ergastolo, chiamiamo le persone col loro nome! Escissioni. No, sono sbranamenti, sono. Scannamenti sono. Si è contraddetto: no, ha detto una bugia. Allora che fa? E lo vedrete dai verbali, era la fine di novembre. Si accorge – lasciamo perdere come – si accorge di aver detto due… non due cose inverosimili, sai l’inverosimiglianza, voglio dire, ti lascia sempre un margine di dubbio, ma due cose palesemente false. Arriva la mattina dopo e, senza neanche che gli si facciano delle domande specifiche – il Presidente se lo ricorderà – dice: ‘mah, ieri mi sono sbagliato, ho detto…’ eccetera. Ecco, allora, queste cose, secondo la Corte Suprema di Cassazione, sono un sintomo terribile di falsità, sono sintomo del fatto che chi parla è un bugiardo. Ecco, per dirsela proprio in parole povere. Quindi, sono ammissibili verosimiglianze e contraddizioni, purché marginali. Cito Cassazione Costante; Cassazione 25 giugno ’84, Redeschi; Cassazione 10 febbraio ’65, Azzolina, in Foro italiano 1965, 2307; Cassazione 21/10/92, Marino, che è la Sezioni Unite, caso Sofri. Quindi devono essere contraddizioni: i ritorni, i ripensamenti di livello secondario nella ricostruzione del fatto. Ma nel nostro caso, io dico che riguardano – e lo vedremo – il fatto centrale degli episodi, e cioè riguardo agli omicidi. Come si fa a dire, l’esempio che vi ho fatto, che si tratta di contraddizioni di livello secondario? E allora quali sarebbero quelle di livello primario? Visto che è stato così povero di particolari. ‘Siamo arrivati lì, siamo scesi di macchina, quello si è messo a sparare, m’ha passato la pistola, ho sparo anch’io, poi me l’ha ripresa, poi…’ Punto. ‘Dopo che ha finito di sparare ha aperto, bah, erano due uomini’. Che raccontino, eh, proprio… da asilo, neanche da prima elementare. Ecco. E la Corte Suprema di Cassazione, sempre a proposito delle contraddizioni e a proposito dei ripensamenti e a proposito delle correzioni, che devono riguardare soltanto elementi marginali, nel cassare una sentenza precedente di questo caso dice: “Non ignoro, nei Giudici precedenti, che vi sono stati errori e rettifiche, esemplificativamente menzionati, risolvendo la contraddizione con il richiamo.” Cioè, i Giudici la cui sentenza viene poi cancellata da questa Sezioni Unite, hanno detto: d’accordo, Marino ha detto delle cose, di aver fatto degli errori, si è poi rettificato. Però noi lo giustifichiamo con il richiamo al tempo trascorso dai fatti narrati, che giustifica – e qui sarebbe il nostro caso, il tempo trascorso dai fatti narrati – “che giustifica le sfasature e le loro ricuciture, senza che ciò incrini però l’attendibilità di fondo delle dichiarazioni.” E prosegue però la sentenza, dice: no, però i Giudici hanno ragionato male, sapete, nel dire così, nel giustificarli questi errori e questi ripensamenti. Hanno proprio ragionato malissimo. E perché? Dice: “La risoluzione del problema è logicamente inappagante, così come viene posta dai primi Giudici, perché, come si vedrà in relazione ai singoli episodi chiave del racconti del Marino” -e come vedremo ora in relazione ai singoli episodi chiave del racconto di Lotti – “è mancato, nell’analisi critica dei Giudici precedenti, un momento essenziale del procedimento logico, diretto a stabilire, con riguardo ai singoli contesti, ai singoli fatti narrati, la rilevanza e la significatività delle lacune e delle contraddizioni, per saggiare l’attendibilità dell’insieme e la schiettezza” – la schiettezza, la spontaneità – “dei successivi adattamenti e delle correzioni. Onde stabilire se si trattasse di genuini ripensamenti, espressione di uno sforzo di chiarezza nell’approfondimento mnemonico, ovvero dell’adeguamento puro e semplice della propria versione, a fronte dell’emergere di contestazioni e di risultanze processuali, da far quadrare con essa.” Bella. Si pensa che i Giudici siano astratti dalla realtà. Eh, no. Questa è scuola, qui insegnano come si ragiona. E come si ragione al più alto grado, come si ragiona quando si giudica. E certo che uno – la memoria già di per sé è fallace, no – e certo che uno si può contraddire, e certamente che uno può entrare in contraddizione, specialmente quando arrivano tutti questi “dottori Sottili” che gli fanno le domande e le controdomande. Però se il tuo sforzo di memoria è genuino, se tu ti correggi, semplicemente perché hai ripensato al fatto, hai detto: ‘mah, mi ero dimenticato… no, ma non era così, l’avevo confuso con quell’altro’. Vi sono vari episodi, no? Questo noi lo apprezziamo. Ma se le due correzioni, per il tempo e per il modo in cui vengono operate, sono banalmente… Signori, questa banalizzazione delle dichiarazioni, banale. Il giorno prima si vien fuori che c’erano due bossoli. Il giorno dopo dice: ‘no, ha sparato anche dentro’. Oppure dice: ‘no, erano dietro i cadaveri, ah, mi sono sbagliato, ho detto avanti, era dietro’. Insomma… E’ correlato da contestazione. Contrasta con le risultanze già conosciute da voi. Nel farvi questa correzione lui non ha detto delle cose nuove e diverse, rispetto a quello che si conosceva, si è solo adeguato… Come dice la Corte di Sezioni Unite? Per far quadrare… Bellina, eh. La famosa immagine che dicevo prima del quadro e della cornice. Lui c’ha in mano questo quadro, questo scarabocchio, insomma, ‘sta crosta e in questa cornice, data, fornita e che consiste in risultanze oggettive, acquisite, queste sì, oggettive – perizie medico-legali, sopralluoghi, vari accertamenti della Polizia Scientifica – in qualche modo deve farcele entrare. Nel caso del Lotti è tutto così. E quindi si naviga dalle contraddizioni, tra quello che aveva detto nell’incidente probatorio, per esempio e quello che poi ha dichiarato al dibattimento; alle inverosimiglianze, va bene; alle palesi falsità; al ridicolo. Contraddizioni. Il ruolo di Lotti a Baccaiano. Baccaiano, 1982. All’udienza del — Il suo ruolo, no? E’ la storia del palo. Dice: “Io facevo il palo.” All’udienza del 27 novembre del ’97… Dunque, un chiarimento preliminare, signori. Il collega che mi ha preceduto ieri, per me ha dato una splendida definizione di palo, che: palo, palo, palo, palo, poi dice il palo sta lì, il palo sta… No, il palo che cos’è? Fa il palo chi si mette in un punto strategico – punto strategico, tenete presente questo – punto strategico, per dissuadere chi passa dall’andare lì o fermarsi lì. Ovvero avvertire i complici dell’arrivo di terzi. Questa è una definizione stupenda che ha fatto il mio precedente collega, forse si è documentato, ma va tenuta presente. Perché sennò si parla ancora una volta di concetti che restano un po’ sospesi, no? Questo è il palo. Quindi, il palo non è un bighellone che sta lì, un pezzo di carne che sta lì e che potrebbe anche non esserci, come quando va a finire agli Scopeti e vedremo. No, no, il palo ha un ruolo decisivo. Infatti, quando viene preso il palo, lui prende tranquillamente le stesse condanne degli altri complici. Ha un ruolo logistico il palo, attenzione. È come il timoniere, se vogliamo, il palo, eh. La nave e il timoniere: adesso stanno arrivando i flutti sulla sinistra, virare in un certo modo, cazzare il pappafico, perché c’è un’onda di vento che viene dall’altra parte. Questo è il palo. Cioè, il palo è quasi come un direttore di orchestra, se ci pensate bene. Perché ha il ruolo di dire: ‘fermi ragazzi, sta arrivando qualcuno’. Nelle sue mani è la riuscita o il fallimento dell’impresa. Uno che ha il ruolo di dire: ‘scappare, scappare’. Oppure: ‘adesso potete’. Il palo è una delle menti di un’operazioni criminali: mettersi in un punto strategico per dissuadere chi passa dall’andare li, o fermarsi lì, ovvero avvertire i complici dell’arrivo dì terzi. Perfetto. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Allora, Baccaiano. Piccola premessa, io sono stato a Baccaiano, eh. E qui una nota di amarezza perché, specialmente il collega, che è arrivato prima di me, ha più volte fatto istanze istruttorie in questo senso. Questi delitti non sono avvenuti a Alessandria di D’Egitto, insomma, eppure mi pare che in un caso la Corte di Assise di Firenze si spostò ad Alessandria D’Egitto per cercare di capire, in una vicenda seguita proprio dall’avvocato Filastò. Si trattava di andare a Alessandria D’Egitto, eh. Questi sono delitti avvenuti… Baccaiano è a 15 minuti di strada. Si prende per Lastra a Signa, poi c’è una deviazione per Cerbaia. La Corte non ha ritenuto finora, ma io la reitero questa, sommessamente, questa istanza. E perché? Per amore della verità. Perché anche le foto non sono sufficienti; anche quelle immagini, quei video, assolutamente. Io sono stato anche agli Scopeti, per esempio, è completamente diverso. Nelle immagini, per esempio, gli Scopeti sembrano uno spiazzo enorme. È piccolissimo. C’è una stradina corta. Poi Baccaiano è clamoroso e ve lo dirò dopo avervi detto le dichiarazioni del Lotti. Cioè, a fini della ricerca della… lo dico sommessamente. Fatelo, se ritenete, anche di vostra iniziativa. Lo dico anche ai Giudici popolari. Non costa niente. Certe dichiarazioni del Lotti, che sembrano innocue, se poi vanno raffrontate con un esame visivo… Perché il processo è questo poi, è ricostruzione storica. Quindi, diciamo, l’errore nel processo direi che è funzionale al processo stesso, non c’è niente di più tremendo che ricostruire storicamente, bisogna fidarsi dei sensi. E cosa c’è di più fallace dei sensi? Non voglio mica fare della filosofia, ma insomma, lo sappiamo tutti. Che fatica è ricostruire storicamente? Se uno non va sul posto? A Baccaiano si va facilmente: si prende la via Pisana, Ponte a Greve, Lastra a Signa, da Lastra a Signa si gira a sinistra per Cerbaia. Bellissimo paesaggio che fa un contrasto terribile poi con quelle croci. E dopo Cerbaia si arriva a Baccaiano. Quando si arriva a Baccaiano, passato questo centro abitato, che è piccolissimo, si gira a sinistra, c’è un dirizzone, come si dice, un rettilineo che porta a Certaldo. A metà di questo rettilineo, che sarà lungo almeno tre chilometri -proprio tre chilometri di visuale – dall’inizio del bivio, dopo Baccaiano, fino alla prima curva. Diciamo due, va, non ci allarghiamo troppo, due chilometri. Sul lato destro, per chi viene da Baccaiano, c’è questa croce. Ecco, il resto ve lo dico dopo. Lui, il Lotti dice: ‘che ha fatto a Baccaiano?’ Dice: ‘io ho fatto il palo’. Dice: “Mettersi in un punto strategico, per dissuadere chi passa dall’andare lì o fermarsi, ovvero avvertire i complici dell’arrivo di terzi.” Allora, udienza 27 novembre ’97, fascicolo 53. Lotti: “Mah, io a qui’ punto lì non feci nulla. Mah, mi chiedevano di star lì, fermo.” Ancora Lotti pagina 35: “Pe’ sta’ lì a guardare se un veniva macchine.” E qui comincia a precisarsi il palo: pe’ stare lì a guardare se un veniva macchine. All’udienza del 3 dicembre, fascicolo 57. Lotti… Sempre la solita domanda: “Ma insomma, lei lì che ci faceva? Due macchine…” Dice: “Mah, se passava qualche macchina. Io sono…” – se passava qualche macchina – “Io sono stato lì, a me un m’hanno detto nulla. Gli stavo lì fermo. No, a me un m’hanno detto nulla.” Pagina 52. Udienza 5 dicembre, fascicolo 61. Lotti: “Mah…” La risposta sempre alla solita domanda: “Ma insomma, che doveva fare lì?” “Mah, di sta’ lì per… che un venisse macchine.” Cioè, lui aveva a Baccaiano, su quel rettilineo, va bene, alla metà dì quel rettilineo, il compito di vedere che non venisse macchine “che un si fermasse macchine.” Lui doveva, cioè, essere un deterrente per le macchine che passavano, per non farle fermare. Io gli chiedo: “E se le macchine passavano?” “Lotti: E che dovevo fare? Boh. “ – e qui dice la verità, eh – “Le vedevano anche loro le macchine. L’è una strada di coso.” Spezzare una lancia a favore del Lotti: questa è vera. “L’è una strada di coso.” Cioè, è una strada di grande transito, larga otto metri, a doppio senso di marcia, rettilinea, senza dossi, in cui le macchine vanno tranquillamente a 80, 100, 120 all’ora, in cui il sottoscritto, per fermarsi e andare a vedere quella croce, ha dovuto la propria macchina – che non è un vagone – lasciarla con le due ruote di sinistra sull’asfalto. Ora, voi provate a immaginare la macchina del Pacciani… Dunque, c’è la macchina di questi poveri ragazzi. Che, anche lì, chiamarla piazzola è completamente improprio. Non è la piazzola degli Scopeti, Baccaiano. Non ce n’è piazzole lì, eh, Signori. Lungo questo rettilineo c’è la banchina, c’è un leggero slargo della strada. Infatti, se vedete le fotografie, la macchina non è messa neanche parallela alla strada, perché le due ruote di quella povera macchina avrebbero dovuto essere – le ruote sinistre – sull’asfalto. È stata messa col muso verso il fiume. Che c’ha un nome classico, non mi ricordo il nome.  

Avv. Nino Filastò: (voce non udibile) Virginio si chiama. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Virginio. 

Avv. Nino Filastò: Non è un fiume, è un torrente.

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: È un torrente. È stata messa col muso verso il fiume proprio perché solo in questo modo si poteva forse immaginarsi un po’ di intimità. Ma tenete presente questo: non era un caso che quei ragazzi, in quel momento di grande allarme, di psicosi collettiva nei confronti del “mostro”, che aveva già ucciso due volte nell’81. Finalmente si sapeva che era un “mostro”. Siamo nell’82. Perché uno si immagina questi luoghi come se fossero posti sperduti in mezzo alla boscaglia. No, niente di tutto… Non si riceve mai questa sensazione andando sul posto. Poi a Baccaiano è addirittura, clamorosamente opposta la sensazione. Questi ragazzi avevano paura. E preferivano arrivare ad un minimo di intimità in un posto frequentatissimo da macchine che svettavano in su e in giù, proprio perché questo, in qualche modo, gli dava un minimo di serenità con riferimento a quel pericolo. Quindi, provate ad immaginare il senso di onnipotenza di questa persona. Che ha agito – e questo argomento poi lo svilupperà il collega, ovviamente – perché spiega benissimo che le cose non sono andate come dice l’accusa. Proprio questo aspetto. Io mi limito a dire che questa storia del palo, proprio, guardate, non ha né capo e né coda. Non ha mamma. Perché, vogliamo divertirci ancora una volta, poi scatta il meccanismo, diciamo, di giocare, no? Cioè, di sospendere il lavoro mentale e dire: mah, lo avranno messo a fare il palo, perché forse volevano eliminarlo… Eh, uno lo mette lì, sulla strada, su un dirizzone, con le macchine che arrivano a 100 all’ora, di notte. Volevano eliminare il Lotti: via, via. Lo volevano eliminare; quello era il modo migliore. Non c’entra un palo, lì. Un palo non serve a niente lì, non serve a niente un palo lì. Perché le macchine… Era un giorno di festa di paese, anche tra l’altro, d’estate. Passano, sfrecciano, voom, voom… Fari che si incrociano, no? E lui dice: “Io ero lì perché un si fermassero macchine lì, in questo punto lì.” Non è vero. Questa non è una contraddizione o verosimiglianza. Se qualcuno di voi si prese la cura, per rispetto della sua coscienza, di andare su quel posto a vedere, lo capisce da sé che qui lui sta dicendo una enorme, gigantesca castroneria. Lotti: “Non lo so mica icché facevo io.” Ha ragione, proprio lì ce lo hanno voluto mettere. L’avvocato dice: ‘ma tu bisogna che tu parli anche dell’82’. ‘E parliamo dell’82, ma io non so nulla. Un lo so icché ci facevo lì, io’. Un palo, non lo poteva fare. O era lui il “mostro” ed era andato lì per uccidere, o sennò il palo non ce lo poteva fare lì. “Un lo so mica icché facevo io. Io ero fermo lì… Icché facevo?”, domanda bellissima, questa. Risponde alla domanda con una domanda. “O non l’ho detto innanzi”, pagina 120. Udienza del 05/12, fascicolo 61. “O non l’ho detto innanzi? Per avvertirli se passava qualche macchina, che si fermasse.” E che avvertiva, lì? Andate sul posto e vi rendete conto che questa è la prima delle falsità. Proprio clamorosa. Palo, lì, non c’entra. Io posso capire un palo a Scopeti; c’è una via, va bene? poi c’è un inizio di uno stradello di 20-30 metri e c’è la piazzola. Allora, alla base dello stradello ci può essere un palo. Perché magari una coppia che voglia, a sua volta, andare lassù, lo prende come deterrente. Ma lì non è una situazione di questo tipo, non c’è uno stradello che porta in nessun luogo. Lì c’è un margine di strada in cui le macchine passano a 100 all’ora. Che ci fa il palo, lì? Volevano eliminarlo, secondo me lo volevano eliminare, guarda. Seguendo questa logica aberrante che scade nel ridicolo, che lo supera. Lo abbiamo detto prima, non ce lo dimentichiamo che così è il ridicolo, eh. È questa l’ipotesi, è lina inversione del senso comune, eh. Restare a contatto con le cose e con gli uomini, vedere soltanto ciò che è, pensare soltanto a ciò che è coerente, esige uno sforzo di interrotta dimensione intellettuale. Il buonsenso è proprio questo sforzo, è un lavoro. Se vogliamo lavorare, andiamo sul posto, andiamo a vedere che lì non poteva fare nulla lui; se invece vogliamo divertirci… Scusate, andiamo avanti. Sempre su Baccaiano: i fari della macchina colpiti da pistola. È evidente che fu sparato, che l’autore sparò ai fari della macchina. Ci sono proprio i vetri rotti, no?, eccetera. E il Lotti dice, nell’incidente probatorio, volume II pagina 4: “Al vetro della macchina, sparò. Non ai fari.” Mah, lui ci dice non ha sparato ai farti. Cioè, questo è un dettaglio. Però è proprio convinto, perché insiste e dice, all’udienza dibattimentale del 3 dicembre, fascicolo 57: “I fari della macchina mi pareano spenti.” Mettiamola come contraddizione, questa, no, come palese falsità. Però, voglio dire: insomma, uno che si trova in un posto buio, con i fari della macchina che sicuramente sono stati colpiti dai proiettili. E se sono stati colpiti dal proiettile, è perché erano accesi, sennò che motivo c’era? Ti pare che uno che va lì per fare quello che deve fare, si diverte a fare il tiro a bersaglio coi fari della macchina? Ci sarà uno scopo se ha sparato ai fari della macchina. Lo scopo era togliere la luce. Lui è così categorico a dire: ‘no, no, spenti. Per carità!’ Mah! 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Giogoli, 1983. E qui c’è una cosa che con la fallacia dei sensi si spiega male. Qui abbiamo sentito gente parlare di sinistri rumori di tende… Scopeti, no? Hanno sentito addirittura, salvo contraddirsi sulla natura del rumore, sul tipo di rumore, hanno sentito il rumore delle tende squarciate, sinistramente, dal coltelo del callido Vanni, eh? E poi, invece, a Giogoli il Lotti non sente la radio nel furgone dei tedeschi che era sicuramente accesa. Di sicuro. Questa non è una inverosimiglianza, questa è un’altra palese falsità che ha a che fare col fatto centrale della narrazione, cioè con l’omicidio. Lotti. Incidente probatorio, volume II pagina 21: “Io non ho sentito musica dentro.” E ci è entrato, eh. O comunque era lì davanti quando ha aperto lo sportello. E ve lo immaginate voi questo silenzio, quei due poveretti che sono morti, i colpi di pistola tutti e nove esplosi, tutti e nove andati a segno. Poi parleremo della fortuna del principiante. E non sente la radio? E insiste, eh. Non lo dice solo nell’incidente probatorio. Pagina 32 dell’udienza del 28 novembre, fascicolo 55. Signori, io me la sono presa questa fatica, sommessamente ve la propongo. La fatica di decidere spetta a voi. Poi, è tutto nei verbali. E vi do anche le indicazioni puntuali delle pagine e dei fascicoli. Se poi riterrete che non siano rilevanti, potete anche non prenderne nota. Lotti dice: “Io non ho sentito niente.” A domanda gli dice: “Ma è sicuro che non c’era la luce, la radio accesa?” Dice: “Non ho sentito niente.” Lo dice due volte. Questo è inverosimile, per esempio. Ancora a Giogoli. Ci racconta questa cosa: che il Pacciani comincia a sparare; poi, sul bel mezzo della sparatoria, gli mette in mano a lui, che prima non aveva mai impugnato la pistola, questa pistola. Lui è lì impacciato, eccetera, spara qualche colpo. Ma tutti precisi, eh, tutti vanno a segno. Bah, eccezionale, veramente! E poi la riprende Pacciani in mano, la pistola, e conclude l’opera stando sempre fuori. Ecco, questo è un momento molto importante. Intanto si contraddice sul nome… Attenzione, questo è il momento centrale, non è un dato marginale o secondario, eh. Teniamo sempre presente l’insegnamento della Suprema Corte Sezioni Unite, che tiene presente naturalmente la fallacia dei ricordi e dei sensi dell’uomo, ma che non la giustifica quando questa riguarda la ricostruzione dei momenti centrali. Peraltro di un fatto omicidiario in cui, in questo caso, il Lotti, per la prima volta, non era un semplice spettatore o un inverosimile o falso palo, ma era proprio un protagonista a tutti gli effetti. Cioè, uno di quelli che hanno sparato. Qui mi rimetto alla vostra personale valutazione. Come fa uno a non ricordarsi una esperienza di questo genere nei minimi dettagli? Poteva dire: ‘io ho sparato in trance. Mi aveva ipnotizzato, Pacciani; il rapporto omosessuale…’, boh! Quando Lotti spara, cosa vede? Pagina 18 dell’incidente probatorio, volume II. Lotti: “A me, i ragazzi parevano seduti a vederli così. Poi non so se erano giù, o no. Mi parevano seduti.” Pagina 18, incidente probatorio, volume II. Poi, udienza , 27 novembre, fascicolo 53, pagina 43. La solita domanda. Dice: “Ma i ragazzi, ha visto nulla?” “bah” – dice – “Non le ho viste bene.” Non dice più che gli parevano seduti. “Non le ho viste bene.” Insiste nella solita udienza: “Mah, io le ho viste dopo. Quando gli ha aperto lo sportello.” Addirittura qui sta dicendo una cosa diversa. Dice: ‘prima non è che mi è parso di vederli seduti, non li ho visti bene… No, non li ho visti proprio per niente’, alla fine. Guardate la… come si potrebbe dire? La evoluzione o l’involuzione. La progressione, per usare un termine della Pubblica Accusa. La progressione. Dice: ‘ma io le ho viste dopo, quando gli ho aperto lo sportello’. Cioè: ‘i ragazzi, prima, io non li ho visti mai’. Insiste. Udienza 28/11, fascicolo 55, pagina 40. Dice: “Mah, c’era un vetro un po’ opaco, sicché un vedevo tanto bene le persone dentro.” Però dice che le vedeva, ma non le vedeva tanto bene. Poco prima ci ha detto: “No, non le ho viste mai prima; le ho viste solo dopo, quando ho aperto lo sportello.” Domanda: “Dove si trovano i due tedeschi…” E questa è una palese falsità, eh. Qui c’è poco da dire: i sensi mi tradiscono, la memoria mi ha fatto un brutto scherzo, eccetera. No, no, questa è proprio una palese falsità, che poi lui ha rimediato, ha tentato di rimediare nei modi che sappiamo, quindi avvitandosi intorno alla sua falsità. Perché la Suprema Corte dice: “Quando uno modifica la sua versione su contestazione, perché era in contrasto con risultanze oggettive, allora non va creduto.” E quindi: “Dove si trovano i due tedeschi, quando fu aperto lo sportello?” E proprio glielo chiede il Pubblico Ministero: “Verso il dietro del furgone?” In gualche modo, no, è suggestiva. “Verso il dietro. . .” “No.” Dice Lotti, perbacco! Questa è… bisogna dare atto a Lotti: le poche volte che ha voluto essere categorico, ha sbagliato clamorosamente, capito? Il Pubblico Ministero dice: “Ma si trovavano verso il dietro, forse?” Dice: “No.” “Dalla parte del volano?” Insiste: “No.” “Dalla parte della guida?” Volano, guida, sempre nello stesso contesto, eh. Udienza 28/11, fascicolo 54, pagina 48. Insiste il P.M., perché il P.M. lo sa dove stavano. Terza risposta: “No, nel davanti.” “Dalla parte del volano, dalla parte della guida, nel davanti.” Oh, risponde tre volte! È una delle poche volte che è chiaro, che è preciso. “Davanti, stava.” ‘Porca miseria, quante volte me lo vuoi chiederei ?’ Se stavano verso dietro… quanto sarà grande un furgone? “Stavano davanti. Dalla parte del volano, dalla parte della guida.” Falso, bugia, bugiardo. Non si può dimenticare o sbagliarsi su una cosa di questo genere. Bugiardo! E tu mandi all’ergastolo la gente con queste cose! E va bene che questa è un’epoca in cui si banalizza tutto, mi scusi lo sfogo, Presidente. Si banalizza tutto, tutto. Ma qui, voglio dire, quando è innocua la banalizzazione, ci possiamo anche divertire, vero. Sempre l’udienza del 28 novembre, fascicolo 54, pagina 98. Sempre su questa storia della posizione, eh. Dice: “Li ho visti da una parte. Non davanti dove c’è la guida.” Questo, è il giorno dopo. Alt, fermi! Questo… Il 27/11 ha detto quello che vi ho detto prima. Allora, il 27/11, fascicolo 53, pagina 43, va bene? Dice: ‘no, no, non davanti, dalla parte della guida, dalla parte..,’ Il giorno dopo, il giorno dopo, il giorno dopo: 28/11, pagina 48 fascicolo 54. Dice: “Li ho visti da una parte. Non davanti dove c’è la guida; dalla parte dietro.” 

(voce non udibile)

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Che ci ha messo la pezza, che però ha scoperto un’altra parte pudenda, in un proverbio veneto. “Erano di dietro.” Ma guarda un po’, ma guarda che strano! Eh? E questa è un’altra palese falsità, questa è un’altra palese bugia. E siccome qui si sta facendo come i chirurghi, eh. Qui, ragazzi… scusatemi. Qui si usa il bisturi, ragionando per similitudine, qui si usa il bisturi, eh. Qui si decide dei destini delle persone. E ci stiamo qui… Chiedo anche venia, a questo punto, per il tono che a volte non può trattenersi, il tono di chi commenta queste cose anche dalla canzonatura, no? Poi, all’improvviso, il difensore si ricorda che è responsabile anche lui, meno di voi, ma anche il difensore è responsabile di un essere umano, e allora dice: ‘sì, basta divertirsi, eh’. Questo ci sta venendo a dire queste cose. L’apparato, lo Stato spende i suoi soldi dei contribuenti, eccetera, per consentire a Lotti di esprimere il suo pensiero e a una marea di intellettuali, di pontificare sul suo pensiero. E alla fine di tutto questo imbuto, il prodotto di tutto ciò deve essere distruggere una persona? No, Signori, no. I processi passano, ma noi si rimane, eh. Noi si deve continuare ad alzarci la mattina, eh. E ad uscire di casa e a guardare i nostri familiari, eh. La vita continua, eh. Sempre a Giogoli, la fortuna del principiante, questo… io faccio parlare il Lotti, sono le sue parole. La fortuna del principiante è un commento mio. Incidente probatorio, volume II, pagine 17 e 18. 16, 17 e 18. Lotti: “Io non ho mai adoprato armi.” Mai adoprato armi. Piccola premessa: chi ha qualche volta adoprato armi sa benissimo la differenza che passa tra il non aver mai adoprato armi, adoprare una pistola per la prima volta: la prima volta non si dimentica mai, non si dimentica mai. Io, almeno, la prima volta al poligono di tiro, non me la sono dimenticata. Perché, miope come sono, mancino, con la mano un po’ tremante, feci nove bersagli su nove. La fortuna del principiante. Tornò… quello mi disse: ‘ma lei mi prende in giro’, dice. ‘No…’ La seconda volta, un disastro, eccetera, no? Però me lo ricordo. E chi ha qualche volta adoprato armi e la pistola, sa la differenza che passa, che è gigantesca. No? E’ proprio come essere sulla terra o sulla luna, tra sparare a un bersaglio inerte e inanimato e sparare ad un essere umano. Il più bravo campione olimpionico di tiro non sparerebbe evidentemente ad un essere umano. Meno che mai a freddo come in un contesto di questo genere. Perché, voglio dire, uno può ritrovarsi nella vita nella condizione di dover sparare ad un essere umano. Le passioni, si sa. Quanto più facili sono i processi, rispetto a questo, quando si discute magari di un omicidio per gelosia, per odio, per l’interesse? E qui si sta ragionando di omicidi caduti dalle nuvole, sospesi. Come in quella commedia di Aristofane, eh? Sospesi. Non si sa perché. Ma quale sarà lo stato d’animo di chi, oligofrenico quanto vi pare, si trova una pistola in mano e dice: ‘adesso sparo a delle persone, non faccio il tiro a segno per divertirmi’. Tutto questo si avverte, no? C’è qualcosa che… Non stiamo parlando di cose umane, non stiamo parlando di rapporti tra persone. Neanche di rapporti tra maniaci sessuali, che comunque una passione ce l’hanno: ha un valore quell’oggetto per loro. E poi parleremo dei moventi e dei valori commerciali. Questo si ritrova la pistola in mano e deve sparare ad un essere umano. E dice: “Io non ho mai adoprato armi.” Poi dice: “Me l’hanno messa in mano, così, era la prima volta.” Insiste, pagina 17, Lotti, incidente probatorio, volume II: “Da principio sento dei colpi. Però non mi orizzontavo.” Però, oh, tutti i colpi sono andati a segno, eh, noi lo sappiamo. Ce lo ha detto il dottor Maurri. “Io presi il dito, così, normale. Però avevo come la mano immobile. E sicché un’è che…” Poi, all’udienza del 3 dicembre, fascicolo 57, dice: “Non sapevo nemmeno come fare ad adoperarla.” E ci credo e ci credo ! “Ho provato a sparare, però non so se l’ho preso ni’ vetro. E il colpo l’ho sentito, eh, quando è partito”, pagina 105. Udienza 0 9/12, fascicolo 62. Attenzione, perché qui c’è un cambiamento della versione. Che forse è passato inosservato, ma è decisivo, perché… Gli si continua a fare contestazioni: ‘Ma lei lo sa che c’è il rinculo. È la prima volta, sta sparando a un essere umano. Ma è proprio sicuro che ha fatto così? E poi li ha presi, anche. Poteva andar sopra, sotto, di lato, a destra, a sinistra. Dice li ha presi.’ Allora dice il 09/12, fascicolo 62: “La presi per il manico, così, però ero un po’ impaurito…” Oh, finalmente un sentimento. Oh, meno male, via. Vedi che anche il Lotti, oligofrenico, alla fine un sentimento gli si tira fuori. “Ero impaurito.” Giusto. Sentimento spiegabilissimo, in base alla logica, buonsenso comune. “E sicché, essendo un po’ impaurito, non sapevo come prenderla.” E insiste a pagina 9, fascicolo 62, udienza 0 9/12. Dice: “La mano la grillava, la grilla…” Oh, sono stati tutti attinti, eh, i poveretti. “La grillava.” Guarda in quali condizioni sono riusciti a colpirli tutti! “La grillava un po’. Unn’è che… Sicché gli è partito così. Non lo so se li ho presi o no.”, pagina 9. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Poi dice… E qui, attenzione, pagina 11. Pagina 11, fascicolo 62, udienza 09/12: Siccome la cosa proprio non si regge, no? È una cosa che è sospesa, no, tra il cielo e la terra, allora qui dà una nota di verosimiglianza, ma la dà adesso, per la prima volta, in conseguenza di contestazioni. Tenete presente la Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite. Dice: “O me l’ha tenuta lui per premere il coso, perché io non ce la facevo a cosalla.” Ah, guarda quante precisazioni. Alla fine dice che: “Ero intimorito.” Poi dice: “Ma li ha presi tutti. Come ha fatto?” “No. Ma me l’ha tenuta lui.” Ma lo dice come quinta o sesta dichiarazione sullo stesso fatto. E questo non è un fatto secondario, è l’omicidio, eh. “Me l’ha tenuta lui per premere il coso. Perché io non ce la facevo a cosare.” E oh, rincara la dose. Dice, sempre pagina 11: “Da principio sì, me l’ha tenuta il Pacciani.” Ora, ve lo immaginate? Io non lo so, gliel’ha tenuta il Pacciani, no? È più verosimile di prima, no? “Perché non sapevo, impaurito a quella maniera…” – paura, me la tiene Pacciani – “un mi riusciva di pigliare il cosino che c’è sotto.” Poverino, non sa che si chiama grilletto. “E poi mi ha detto come fare.” Ma senti quante cose ha fatto il Pacciani in pochi secondi! Gli ha detto pure come fare. Quei poverini… Non so se avete notato, in tutte le ricostruzioni omicidiarie di questo signor Lotti, le vittime, le vittime, non esistono. Le vittime non esistono. Stanno lì per farsi ammazzare. Cioè, loro sono andati lì per svolgere un ruolo, un compito. Il ruolo delle vittime agli Scopeti, a Vicchio, per esempio, e anche qui, è quello di stare lì per farsi ammazzare. E che volete, non c’è versi. A come li descrive lui, per esempio qui a Giogoli, eh, ne saranno passati di secondi, no? ‘Mi spiegava come fare, mi ha passato la pistola in mano, all’inizio me la teneva in mano lui, poi mi ha lasciato; poi se l’è ripresa lui, poi si è sparato girando intorno al furgone…’, saranno passati dei secondi, vivaddio! Le vittime, non si sa: ‘mah, erano sedute, erano in piedi, un l’ho viste…’ “Grida ne ha sentite?” “No.” Qualche volta dice: “Ho sentito dei lamenti.” Ma la stessa cosa succede a Vicchio. Perché questo è veramente… questo deve destare la pietà, poi, no? E 1 rabbia nei confronti di chi narra. Spietati, bisogna essere nei confronti del Lotti, perbacco! Perché queste vittime… Perché lui lo dice che ha commesso, lui lo dice che ha partecipato. Vanni no. Si è sempre protestato, nel suo linguaggio, innocentissimo. Innocentissimo, è il massimo che è riuscito a dire. E, secondo il Pubblico Ministero, dormiva con un occhio solo? No, no, dormiva con tutti e due, ve lo posso garantire, che ci sono stato a fianco per quattro mesi. Non ce l’ha le physique du ròle, è inutile! 19 minuti di domande fatte dal… L’ho cronometrato, eh. 11 Pubblico Ministero, a Lotti, gli ha fatto 19 minuti di domande aventi ad oggetto un concetto profondissimo: i vibratori del Vanni: 19 minuti di domande, gli ha fatto. “De hoc postea.” Allora, torniamo lì. Le vittime non ci sono mai. In questa ricostruzione, in queste ricostruzioni — e questa è anche la fallacia, no, il buonsenso comune – in queste ricostruzioni, questi disgraziati non ci sono mai. Cioè, sono dei fantocci. Sembra che li abbiano messi lì apposta per dire: guarda, oh, sono lì, si fa la prova. Noi ti si ammazza. Però non ti muovere, non ti spostare. Dio… Non mi confondere’! A Vicchio succede una cosa tremenda, perché, scendono dalla macchina – poi ci torno, eh – con le parole del Lotti, eh. Con le parole del Lotti: scendono dalla macchina, si avvicinano alla macchina di quei ragazzi, con la luce, senza la luce. Questi stanno sempre lì. Poi il Pacciani torna indietro, riprende la pistola da sotto la macchina e va là e gli spara. E questi, naturalmente, che devono fare? Stanno lì per farsi ammazzare, perbacco! È così, eh. Cioè, mentre è risaputo – perché lo dicono tutte le ricostruzioni e tutte le perizie — che l’azione omicidiaria ogni volta è stata fulminante: ha impedito alle vittime ogni accenno di reazione. Agli Scopeti, la stessa cosa. Addirittura agli Scopeti il Pucci ci viene a raccontare che andarono a vedere questi due poverini, che poi chissà perché sono sempre lì a fare l’amore, sono stati visti a Vicchio cinque volte, secondo la ricostruzione del Lotti. Da lui, da Pacciani, da Vanni… Erano sempre lì con la macchina celestina. Quei disgraziati erano sempre lì a fare l’amore. Ma guardai Agli Scopeti, lo stesso. Perché vanno nel pomeriggio, si fermano. E l’interroga proprio il collega, il Pucci: “Ero lì, si faceva l’amore, li abbiamo visti…” Tornano la sera e rifacevano l’amore anche la sera, eccetera. Ma sono, lo capite che sono fantasmi, sono prodotti di una fantasia di bassissima lega, anche, di questa gente. Che non sa neanche inventare. Ha ragione Hitler: “Più grossa la spari, a volte più difficile è smontarla.” Perché la follia e la inverosimiglianza e il ridicolo sono espansivi. Sono espansivi, ci coinvolgono… Teniamo sempre presente quello che dice Bergson: “Noi dobbiamo lavorare, la nostra mente deve essere vigile.” Perché io devo accettare che sia vigile una Nicoletta, Nicoletti Filippa, come si chiama, che glielo chiede cinque volte? Una povera donna che è costretta per vivere a fare la prostituta, glielo chiede cinque volte: ‘ma tu se te? Ma sei sicuro? Ma sei stato te? Ma li ha visti per davvero? Ma li hai visti bene?’ E poi non glielo dobbiamo chiedere 50-500 volte? Far ragionare il nostro cervello su questa cosa, ma scherziamo? Stanno lì per farsi ammazzare. “Me l’ha tenuta lui…”, allora falsità doppia, tripla, quadrupla falsità. Un progressivo – voi avete sotto i vostri occhi, Signori, con le parole dello stesso narrante – un progressivo aggiustamento del tiro, come dice la Cassazione, per far qua-dra-re la sua versione alle contestazioni e all’emergenze oggettive processuali. Conclusione del vostro ragionamento logico, in base all’insegnamento della Suprema Corte: falso, bugiardo. Ma poi l’ha anche detto alla Nicoletti: ‘ora, l’avvocato mi dice che devo parlare dell’ottanta… Ma io non so nulla’. Ma cosa vogliamo di più? Falsità a Giogoli. “Pacciani…” Dice Lotti, lo dice e lo ripete e lo ribadisce. Attenzione, perché le poche volte -pochissime, bontà sua – che non ha aggiustante il tiro, che non si è contraddetto, ha sparato delle cose che non… inesistenti. Sono delle offese alla vostra intelligenza. Oh, ecco. Ha sparato delle cose che rappresentano delle offese all’intelligenza di chi li sta giudicando. E non è giusto che la faccia franca, che faccia addirittura il giudice lui. Uno che… che non le dice neanche bene. Perché se le dicesse bene, perlomeno, sarebbe più. dignitosa. “Pacciani non sparò dentro il furgone”, incidente probatorio, volume I, Allora, Lotti dice, pagina 49… Incidente probatorio, volume I, pagina 49. Lotti: “Dopo aver sparato, la prese lui, il Pacciani.” “La prese lui”, probabilmente la pistola, penso. “E andò dalla parte…”, sì, la pistola. “E andò dalla parte opposta del furgone e sparò.” Pagina 49. Insiste: “Aprì lo sportello Pietro e guardò se era uomo o donna. E vide che erano morti.” Allora, spara, finisce di sparare, apre lo sportello e vide che erano morti. Poi aggiunge pure che si arrabbiò perché erano due uomini… Va be’. Udienza 27 novembre, fascicolo 53. Lotti: “Poi – attenzione – “dopo, dopo, quando gli ha finito” – poverino, vai – “quando gli ha finito di sparare” – ma che deve dire di più? –“poi” – ancora insiste – “gli aprirono lo sportello.” “Dopo, quando gli ha finito di sparare, aprirono lo sportello.” Pagina 46 del fascicolo 53. Udienza 28 novembre, fascicolo 54, pagina 50. Lotti: “Dopo che hanno sparato definitivamente tutto…” Perché qui c’è, si immagina l’incalzare delle domande, no? Dice, com’è possibile? Ci sono i bossoli dentro. E lui, spiega, ecco, allargando un po’ il ventaglio del suo vocabolario abituale, dice: “Dopo che gli hanno sparato definitivamente tutto, hanno aperto gli sportelli.” Ma cosa volete da me? È chiarissimo. “Dopo che hanno sparato definitivamente tutto, hanno aperto gli sportelli”, pagina 50. Pagina 59: “Dopo, quando hanno sparato del tutto…”, ma guarda quanto è ricco il vocabolario del Lotti! “Dopo che hanno sparato del tutto, definitivamente tutto, del tutto, gli ha aperto dopo lo sportello.” Ma cos’altro vogliamo signori? Come lo deve dire? Ma che deve dire questo poveruomo, di più? Poveruomo, per modo di dire, eh. Udienza 09/12, fascicolo 62. Il sottoscritto gli chiede: “Ma quando Pietro…” Perché qui c’è una evidenza oggettiva, no? Finalmente c’è un punto su cui o è bianco, o è nero. E questo, attenzione – insisto con le parole della Suprema Corte – non è un punto secondario, non è un punto di basso profilo, non è un punto marginale, non è un punto in cui è ammissibile e concepibile l’errore o la contraddizione, stante la naturale fallacia della memoria umana. No, dice la Cassazione, no dice il buonsenso prima della Cassazione: laddove tu mi stai parlando del momento topico, del momento decisivo dell’azione, tu non ti devi sbagliare. Meno che mai, tu Lotti che è la prima volta che spari, poi, via. Sul Eh? Allora io, per eccesso di zelo, chiedo: “Quando Pietro aprì lo sportello, sparò altri colpi?” Facciamogli anche questa domanda, vai. Gliel’ho fatta suggestiva, guarda, lo volevo aiutare forse, chi lo sa? Lotti: “No, no. In quel momento lì non ho sentito dei colpi.” Pagina 21, fascicolo 62, udienza 09/12. Oh, questo è falso. Questo non è contraddizione, non è inverosimiglianza, è falsità con note di ridicolo. Ecco, se vogliamo qualificarla. Ricordate la Corte Suprema? Signori, lo dico più che altro per i Giudici non togati. Dice: “È mancato nell’analisi critica dei Giudici un momento essenziale del procedimento logico, diretto a stabilire, con riguardo ai ‘singoli contesti, la rilevanza e la significatività delle lacune e delle contraddizioni per saggiare l’attendibilità dell’insieme. E la schiettezza -la schiettezza – dei successivi adattamenti e delle correzioni.” A parte che qui, correzioni, poverino, non ne fa neanche. Lui, fino in fondo, fino alla fine, fino alla tomba, ha detto: “I colpi sono stati sparati tutti fuori e tutti prima di aprire lo sportello.” Qui non c’è neanche da dire che ha aggiustato il tiro, poverino. Sui cadaveri ha tentato di aggiustare il tiro, la posizione; ma sui corpi, no. “E la schiettezza dei successivi adattamenti e delle correzioni, onde stabilire se si trattasse di genuini ripensamenti, espressione di uno sforzo di chiarezza nell’approfondimento mnemonico, ovvero dell’adeguamento puro e semplice della propria versione, a fronte dell’emergere di contestazioni e di risultanze processuali da far quadrare con essa.” 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Io vado avanti quanto vuole, Presidente.

Presidente: … vada avanti.

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Benissimo, la ringrazio. Capitolo contraddizioni: Vicchio, sopralluoghi. Domanda quante volte e con chi Lotti è stato nella piazzola di Vicchio prima dell’omicidio. E questo, Signori della Corte, non può passare come una contraddizione secondaria, perché è correlata alla versione del Lotti in ordine, con riferimento alla via di fuga dopo l’omicidio, di cui diffusamente parlerà il collega dopo di me. Io mi limito a riferire alcune osservazioni del Lotti. Anche qui si possono apprezzare i successivi aggiustamenti, diciamo così, propedeutici alla sua versione, che in sé e per sé — e lo dico forse per l’ennesima volta e chiedo scusa della ripetizione – non può significare proprio un bel niente. Né sotto un profilo di riscontro oggettivo, perché come dirò quando si arriverà alla disamina dei riscontri oggettivi, il riscontro oggettivo deve essere un elemento di fatto esterno – esterno – al dichiarante, che ne corrobora la credibilità. Quindi il Lotti che, sul posto, dopo che ha cominciato a fare le sue dichiarazioni, va lì e dice: ‘si, allora, dunque, questa è la piazzola’ -lo sappiamo tutti – ‘siamo andati via per questa strada’, è una cosa che è priva di qualunque significato e priva di qualunque rilevanza. Che doveva dire? Che sono andati via volando con l’elicottero? Non ho capito. E’ chiaro che sono andati via, no, percorrendo una strada. 

(voce non udibile)

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Quello che è. È ovvio, no? Non poteva mica dire: ‘siamo andati via perché siamo stati rapiti dagli angeli, o dai demoni’, non so. Quindi, voglio dire, queste cosiddette ricostruzioni di luoghi, non hanno nessun significato sotto il profilo dei riscontri oggettivi. Tant’è vero che lo dice anche, guarda un po’, la Corte Suprema di Cassazione. E questa è una parentesi che apro. Da un lato Cassazione 19 febbraio 1990, Pesce. In Cassazione penale ’91, 2, numero 14: “Se da un lato, il riscontro non deve necessariamente concernere il tema decidendum” – l’oggetto della decisione – “in guanto esso deve valere solo a confermare da fuori ‘ab estrinseco’” – da fuori, quindi da fuori del Lotti -“l’attendibilità del chiamante, dall’altro però il riscontro deve centrare fatti che riguardino direttamente la persona dell’accusato.” Vi ho detto prima: nessuno ha detto ‘ho visto in quella macchina Vanni’. Se poi lo hanno visto cinque giorni prima o 10 giorni dopo al bar, va be’, allora tutti quelli che sono andati al bar cinque giorni prima o 10 giorni dopo sono possibili sospetti. Vi ricordate l’indizio riscontrato della sentenza Bozano? Non hanno detto i testimoni: ‘io ho visto Bozano cinque giorni prima vicino alla scuola svizzera’. Intanto hanno detto: ‘io ho visto Bozano’, e qui nessuno dice ‘io ho visto Vanni. E poi hanno detto: ‘io ho visto Bozano alle cinque del pomeriggio, davanti alla scuola svizzera’, ora del rapimento. Quindi, il riscontro oggettivo – guelli che vi gabellano per riscontri oggettivi – deve centrare fatti che riguardino direttamente la persona dell’accusato, in relazione allo specifico fatto che gli viene addebitato. E poi dice: “L’oggetto della conferma dell’attendibilità” – il riscontro – “deve essere individuato in quei dati storici…” non chiacchiere o caroselli di macchine, in un paese che c’ha 20 milioni di macchine e in una zona geografica che è fra le più frequentate del mondo. Avesse detto ‘nel deserto di Gobi ho visto due macchine’. “L’oggetto della conferma dell’attendibilità deve essere individuato in quei dati storici che attengono alla responsabilità del chiamato in correità e non già a quelli che risultino di mero contorno, descrittivo di luoghi o di persone”. Quindi, i riferimenti del… E questa è, dunque, Cassazione Sezione II. II, non è la I, II. 7 febbraio ’91, Vannini. In Cassazione Penale ’92, numero 998, ripresa anche da stesso Massima e anche del Tribunale di Roma, 7 novembre ’89, Canzulli. Allora, i riferimenti che risultino di mero contorno descrittivo di luoghi o di persone, sono acqua fresca. Cioè, vanno giù senza lasciare traccia. Non sono riscontri oggettivi, Signori della Corte, capito? Cioè, se voi continuate a ritenere, semmai riterreste – uso un’ipotetica di terzo grado -riscontri oggettivi cose di questo genere, voi fareste una sentenza errata. E non perché ve lo dice il sottoscritto che non conta nulla. Perché il riscontro oggettivo è una cosa seria. Il riscontro oggettivo non è il Lotti che dice: ‘la fontana… e c’era più o meno acqua nel torrente 11 anni fa’. Quella semmai è la prova del fatto. Quella è la prova provata del fatto che lui non c’era, se proprio vogliamo dirla tutta. Esattamente l’opposto. Quella è il riscontro oggettivo della non presenza del Lotti 11 anni prima, per le ragioni che sappiamo, che vi ho spiegato prima. Uno che va in un posto alle 11 di sera, che ora era non lo so, buio di sicuro, con la sua macchina segue un’altra macchina davanti che, per sua stessa ammissione, solleva un tale polverone su queste strade secondarie che appena appena lui vedeva le luci di posizione della macchina che lo precedeva. Ma come fa a dire che c’era più o meno acqua, ovvia! Questa è un’offesa alla vostra intelligenza. Qui ci si prende gioco di voi. E poi i contorni descrittivi: la casa, che non è una colonica, ma è una casa in costruzione. Stessa cosa, non valgono niente. Sono moneta falsa. E noi siamo persone adulte, invece e, a Dio piacendo, non siamo oligofrenici e abbiamo molto spiccato il senso, anche, del ridicolo e dell’assurdo ridicolo e abbiamo un cervello che lavora e non ci facciamo gabellare. Allora, sopralluoghi di Vicchio. È stato chiesto al Lotti: “Quante volte e con chi lei è stato nella piazzola di Vicchio prima dell’omicidio?” E lui dice. Allora, incidente probatorio, volume I, pagina 52. “Con la Filippa Nicoletti, che conosceva guella piazzola”, la Filippa. Poi, incidente probatorio, volume I, pagina 55. “Con il Pucci”, vide per la prima volta la Panda celeste. Incidente probatorio, volume I, pagina 55, idem: “Con il Vanni”. Inseguimento della coppia fino al bar di Vicchio. Nell’incidente probatorio, volume I, a pagina 65, a domanda dice: “No, no, da solo proprio no.” Ecco, io a Vicchio, sopralluoghi da solo, o comunque visite a Vicchio da solo proprio no. “Da solo proprio no, non ne ho mai fatte.” Poi comincia a dire, all’udienza dibattimentale. Anche qui, guardate gli aggiustamenti, eh. Guardate la progressione della teoria dell’accusa. Fascicolo 54, udienza 28/11, pagina 38. Dice: “Sì” – invece, da solo – “sì, sì, una volta sono andato da solo.” Guarda, eh. Dice: “Questa era un’iniziativa mia”, eh, lo spiega. “Un c’era altri con me.” “L’ha già detto.” “Sì, da solo. Era un’iniziativa mia. Non c’era…” “Abbiamo capito, Lotti, che c’è andato da solo.” Quante volte… “Ero da me solo” – continua – “ero da me solo.” “Sì, questa era un’iniziativa mia, un c’era altri con me, ero da me solo.” Pagina 38, udienza 28/11, fascicolo 54. Domanda, all’udienza del 27/11, fascicolo 53, pagina 62: “E Vanni e Pacciani sono andati a fare un sopralluogo lì, prima dell ‘omicidio, che lei sappia?” Allora, il 27/11, fascicolo 53, pagina 62, risponde : “Un lo so. Un m’hanno detto niente, un son sicuro.” Invece il giorno dopo, guarda un po’, il giorno, il 28/11, fascicolo 54, il giorno dopo, eh. Perché poi, voglio dire, uno dice va be’, sei mesi dopo. 

Avv. Nino Filastò: (voce non udibile)

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Si capisce sì. Dice… Ora ci arrivo. Il giorno dopo dice, per divinazione, per intuizione, forse non è tanto oligofrenico poverino, non lo so io. Però dice: “Sì, sì, Vanni col Pacciani c’è andato.” E secondo voi, Signori della Corte, perché il giorno dopo vi dice questo, forza? Il mio è sempre un dialogo muto, quello del difensore, con la Corte, no? Un dialogo muto. Lui doveva dire così, perché sennò come faceva a spiegare che Pacciani conosceva la strada e la via di fuga – davanti c’era la macchina del Pacciani e dietro c’era lui – se prima ha sempre detto che sopralluoghi Pacciani e Vanni non ne hanno mai fatti? Ha capito lo sfondone, ha capito per divinazione lo sfondone e subito la pezza. Ma come dice quel proverbio e come dice la Cassazione… 

Avv. Nino Filastò: “Peso el taccon del buso.”

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: “Peso el taccon del buso”. È peggio è la toppa del buco, oh bellissimo. L’avvocato Filastò ha ascendenze venete, forse. 

Avv. Nino Filastò: No

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: È peggio la toppa del buco. Dice: ‘no, ma guardi ieri mi sono sbagliato. Quelli, io poveri cada…’, non dice neanche i poveri cadaveri, i ragazzi erano dietro. Ci ha detto davanti. Sui proiettili non se l’è sentita. Non l’ha notato. Qui dice la stessa cosa, no. Dice: “No, guardate, ieri mi sono sbagliato. No, no, l’hanno fatto il sopralluogo.” “Come sarebbe a dire?” “Eh, certo che l’hanno fatto il sopralluogo, sennò come facevano a scappare dopo.” ‘Io dovevo essere davanti a loro e io dovevo fargli da guida per andare e per scappare, perché l’ho cinque volte prima, cinque, che io ci sono andato: con la Filippa Nicoletti, con il Pucci, con il Vanni’, poi dice da solo no e poi dice ‘no, no, anche da solo, ci sono andato anche da solo’. Chi è che conosceva il posto? Lui lo conosceva. Allora lui non doveva seguire il Pacciani e lui doveva essere la guida del Pacciani. Allora, siccome questa cosa non sta né in cielo, né in terra, il giorno dopo… ma neanche alla prima elementare, ma che abbiamo fatto di male, signori, per berci questa roba. La mattina dopo… neanche la prima elementare, neanche nella prima si sentono queste fandonie. E dice: E no, no, fermi tutti, c’era stati. Sì, perché sennò come facevano a scappare e io a seguire loro?’ Falsità obiettiva: bugia, bugiardo. Bugiardo! Siamo sempre a Vicchio, signor Presidente. E la voce dell’avvocato comincia ad affievolirsi, le gambe cominciano ad anchilosarsi, comincio ad avere un leggero calo di zuccheri e chiedo pietà alla Corte. Comunque… Questa è una contraddizione, che può essere spiegata umanamente con una, come dire, con una difficoltà spazio-temporale dovuta alle limitate capacità intellettive del dichiarante. Ma che però è sintomatica, perché lo rende comunque poco attendibile e quindi in quel giudizio di attendibilità, che si riferisce alla personalità del dichiarante, devono entrarci le contraddizioni di questo genere che sto per dire. Perché dice: uno che commette contraddizioni, che incorre in contraddizioni di questo genere, è una persona che bisogna prendere con le molle, è una persona che bisogna studiare a fondo. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Le distanze a Vicchio. Dov’era Lotti, durante l’episodio omicidiario, come si dice, durante quello scannamento infame, dov’era Lotti rispetto a Vanni e Pacciani? Allora, Lotti dice prima, a pagina 62, volume I dell’incidente probatorio : “Io non ero lì vicino, ero un po’ più lontano.” E fin qui abbiamo capito poco tutti quanti. ‘Ero vicino, ero lontano’, concetti vaghi. Poi a pagina 26 del volume II dell’incidente probatorio dice: “Io ero a due-tre metri di distanza.” Allora qui cominciamo a preoccuparci, perché due-tre metri di distanza non è lontano; due-tre metri di distanza è da qui al Vanni, o all’avvocato Filastò. Dire ‘non sono vicino, sono lontano’, lontano posso essere io rispetto al Presidente, per esempio. Quindi, lo vogliamo giustificare? E’ una persona che si muove male, che ha scarse capacità di valutazione spazio-temporale. Ma poi continua a insistere. Pagina 15 del volume III, sempre dell’’incidente probatorio. Cioè qui siamo in un unico contesto di strumento processuale, eh, non è che… Perché, avesse detto ‘io non ero vicino, ero lontano’ nell’incidente probatorio; poi dopo otto mesi viene al dibattimento e dice ‘no, ero a due-tre metri’. Va be’, ha riflettuto, c’è stata una macerazione, uno sforzo mnemonico sincero, genuino, spontaneo, una valutazione, una ricostruzione mentale, fotografica del momento, delle sensazioni provate, eccetera e dice: no, ma che castronerie ho detto, non ero lontano, perbacco, ero a due-tre metri. E allora si spiega. Ma quando tu, nello stesso contesto, nello stesso giorno praticamente, siamo sempre volume I, volume II e volume III dell’incidente probatorio, mi dici sempre la stessa… dici tre cose completamente diverse, eh, allora io posso dire anche che tu, in base a questo soltanto non sei falso, Dio bono, come la peggiore delle monete false, ma sicuramente sei uno che come attendibilità va preso proprio con le molle. A decidere del destino delle persone sulle tue dichiarazioni è come mettere in mano, voglio dire, il pulsante della bomba atomica, Dio bono, a un bambino, ehi Allora lui dice, nello stesso contesto probatorio: “Io non ero lì vicino, ero un po’ più lontano.” Pagina 62, volume I dell’incidente probatorio. Poi dice: “Io ero a due-tre metri di distanza.” Che è una cosa completamente diversa, a pagina 26 del volume II dell’incidente probatorio. Poi dice: “Io ero a tre-quattro metri”, va be’, ora si è avvicinato troppo due-tre metri, allora si incomincia ad allontanare, diciamo tre o quattro. Pagina 15 del volume III. E poi, all’udienza del 3 dicembre dice: “Io ero a 10 metri, via. Ero a 10 metri.” Pagina 17, udienza 03/12, volume 59. Io aggiungerei: come faceva a sentire i gemiti di quella povera ragazza? Lasciamo perdere, ne parlerà il collega di questo. Dico, ma vi rendete conto signori? Questa è la materia. È la materia umana. In questo senso forse comincia a diventare non troppo difficile il vostro compito, se vi fate guidare da un sano buonsenso. Per una volta sposo io l’aggettivo usato dal Pubblico Ministero, ma dopo aver pensato, dopo aver riflettuto, non esimendovi dal pensare e dal riflettere, eh. Lui vi ha detto: voi avete la forma, potete lasciar perdere la sostanza. Eh, no. Io dico il contrario: guardate la sostanza, lasciamo perdere la forma e vedrete che il risultato poi non è così insormontabile per dire che questo non è uno strumento di prova utilizzabile, in nessun serio processo civile. Era meglio quando facevano la tortura, allora. Magari un torturato, sia pure sotto i tormenti, poteva dire la verità. Perché, non ci poteva essere un torturato che dice la verità? E dirla in modo chiaro, consequenziale, logico, connesso. Questo vi dice melma, vi dice stupidaggini, vi dice banalità, vi dice cose da bar. Si parla tanto dei bar e magari si mette anche, si getta un’ombra tremenda, no, su un’intera comunità. Io questo non lo condivido affatto. Si fosse parlato di delitti mafiosi – scusatemi lo sfogo – di delitti mafiosi, va bene, di organizzazioni mafiose, di delatori, e allora veniva fuori, con tutto il rispetto per gli abitanti di Montelepre, che sono straordinari sicuramente, di antichissima civiltà, un ri ferimento, Dio sa la situazione omertosa di Montelepre, che è la patria del bandito Giuliano. Qui siamo nella valle del Machiavelli, o dove ha vissuto, dove ha scritto “Il Principe” Machiavelli, c’è la casa del Machiavelli a San Casciano, dove ha scritto “Il Principe” – nel faro di civiltà della Toscana e si getta il discredito su tutta \ma comunità, dicendo: ‘eh, loro sapevano perché ne avevano parlato al bar’. E poi anche questa storia, ma Signori, ma io non posso credere. Ma che peccato abbiamo fatto per sentirci dire queste cose? Che il Pubblico Ministero creda veramente a quello che dice, quando dice: “Ne avevano parlato al bar Vanni…” no Vanni. “Ne avevano parlato al bar Lotti e Pucci che erano stati agli Scopeti.” O quando mai? Quando mai il colpevole va, dopo il fatto – perché mi pare che lui si sia dichiarato colpevole, no? – va, dopo il fatto, nella immediatezza, a parlarne al bar. E lui si arrabbia con gli abitanti di San Casciano, o con i frequentatori del bar, che è la stessa cosa e dice: ‘eh, lo sapevano tutti, avevano paura’. Qui c’è l’associazione a delinquere di stampo “merendistico”, eh. Ma come si fa? Ma come si fa? Ne hanno parlato al bar. E da lì si inferisce, si chiama inferenza la deduzione logica: poiché ne hanno parlato al bar, ma l’abbiamo saputo solo 12 anni dopo, sono tutti degli omertosi, che non amano la verità. E si perde di vista la premessa del sillogismo. Ma come si fa a parlarne al bar di una cosa del genere? Ma chi ci crede? Al bar. Io posso capire: chiamo una persona. Al bar. Luogo pubblico. Contraddizioni. Beh, qui veramente si dovrebbe intitolare “palese falsità”. Come fu uccisa la povera Pia Rontini a Vicchio. Dunque, la prima volta che si occupa di questo argomento, episodio omicidiario, come fu uccisa episodio centrale della ricostruzione del fatto. Non si può dire che le contraddizioni, gli aggiustamenti, le correzioni, o le falsità su questo aspetto – sempre seguendo l’insegnamento della costante Giurisprudenza della Suprema Corte e delle sue Sezioni Unite – sono elementi secondari, di contorno, in ordine ai quali è possibile concepire, ammettere e giustificare un errore, no? Come fu uccisa la Pia Rontini è il momento centrale dell’episodio. E quindi, su domanda del collega Santoni Franchetti, che chiede: “Cosa fa Pacciani? A chi spara per primo?” Tenete presente, ovviamente – voi avete presente, Signori della Corte – tutte le risultanze delle perizie medico-legali che sono acquisite agli atti, dei sopralluoghi, ce n’è più di uno: professor Maurri, professor De Fazio. Dunque, questo è l’estratto sulla causa della morte. No, no, io mi riferisco solo a come fu ucciso, non a tutta l’altra problematica che riguarda la Pia Rontini. Redatta dai dottori Mauro Maurri, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze: Mauro Maurri, Giovanni Marelli e Franco Marini. Dato certo, quindi, dato inconfutabile, incontrovertibile. C’è un cadavere, no? E quindi dice così: “Conclusioni. La Rontini venne attinta da due colpi d’arma da fuoco. Poi due colpi d’arma bianca, nonché venne mutilata.” Eccetera, eccetera, eccetera. “Non vi fu alcuna possibilità di difesa…” “Venne attinta da due colpi d’arma da fuoco.” Elementare, lo sanno tutti. Domanda al Lotti: “Come fu uccisa la Pia Rontini?” Chiede nell’incidente probatorio, volume II, la pagina qui non è stata messa; l’avvocato Santoni Franchetti. E’ il volume II dell’incidente probatorio. “Cosa fa Pacciani? A chi spara per primo?” Lotti: “Bah, spara all’uomo.” E qui ancora si può reggere, eh. Anche se in realtà le risultanze oggettive dicono diversamente, come voi ben sapete. Avvocato Santoni Franchetti: “L’uomo sparò anche alla donna, prima che il Vanni…”, puntini, puntini. Lotti: “No.” Non è che dice ‘no, non l’ho visto, no so’. “No, sparò all’uomo e basta.” Avvocato Santoni Franchetti, poverino, lui insiste: “E alla donna quand’è che ha sparato?” Perché noi sappiamo che – mi si scusi la reazione nervosa, puramente nervosa e di stanchezza – noi sappiamo che la signorina Pia Rontini morì, prima di tutto in conseguenza dei colpi di pistola e che i colpi di coltello inferti nella regione della gola di per sé non erano mortali, lo dicono le perizie medico-legali. Quindi il collega Santoni Franchetti insiste, dice: ma come è possibile che lino che dice che è stato e che ha visto, che ha partecipato facendo da palo, va bene, molto più di un testimone che magari era lontano, era… uno che ha partecipato, un correo, che preso da questa catartica piena del cuore, che vuole dire tutto, mi viene a dire una castroneria di questo calibro. Dice: “No, sparò all’uomo e basta”. Sparò all’uomo e basta. Insiste il collega: “E alla donna quand’è che spara?” Addirittura la domanda è suggestiva, eh. Voglio dire, perché ‘alla donna quando spararono’, non dice ‘ma alla donna spararono o no’, doveva dire. Invece domanda: “Alla donna quando spararono?” Che presuppone – è una domanda retorica – presuppone ‘spararono prima’, ‘spararono dopo’, ma spararono. È una domanda che invita alla risposta: spararono. Sapete che risponde il Lotti: “No, la donna la portarono fuori.” Domanda dell’avvocato Santoni Franchetti: “E alla donna quando spararono?” Risposta del Lotti: “No, la donna la portarono fuori.” E l’avvocato Santoni Franchetti insiste con la domanda suggestiva e dice: “Ma insomma, le spararono dopo?” Tutte domande che presuppongono la risposta ‘spararono’. Perché ha detto: “E alla donna quando spararono?” Poteva dire prima o dopo, ma doveva dire ‘spararono’. Poi quando dice: “Alla donna spararono dopo?”. Poteva dire si, no, ma sempre di sparare si sta parlando. Sapete cosa risponde il Lotti? “No, cominciò col coltello a tagliare.” “No, cominciò col coltello a tagliare.” E allora, il povero collega Santoni Franchetti, non sa più da che parte… E domanda: “Quindi lei non ricorda se spararono alla donna?” Lo sta aiutando, gli vuol venire incontro, del resto è un legale di parte civile. Dice, ma buttiamola sul non ricordo, no? Quando uno le dice proprio grosse, ma via, su, di’ che non te lo ricordi, così ci lasci un po’ di materia anche a noi, per mettere la pezza che è peggio del buco. Ma notate la dialettica, sono sicuramente più avvezzi ovviamente i Giudici togati a questo tipo di dialettica. Queste sono le classiche domande da controinterrogatorìo, da controesame, sono le classiche domande suggestive, che sono ammesse solo nel controesame. Sono domande suggestive, che in gualche modo suggeriscono la risposta. Vietatissime nell’esame diretto, ovviamente, perché si inquina, no, si inquina la prova. E questo non sa più come fare, dice: “Ma gli spararono dopo?” “No” – dice – “cominciò col coltello a tagliare.” Cioè la prese lui secondo… il “vicemostro”. Che poi il “vicemostro”, vero… uno che dice usava il coltello. E allora dice Santoni Franchetti: “Quindi lei non ricorda se spararono alla donna?” Cioè, gli dà proprio l’estrema unzione, no? Dice, va be’, dimmi che non te lo ricordi. Pagine 29 e 30. Ecco, ci sono le pagine. Dice, allora, pagina 29 e 30, del volume II dell’incidente probatorio, dice: “Quindi lei non ricorda se spararono alla donna?” E sapete qual è la risposta, Signori? Cioè, proprio non l’ha colta questa. “No, alla donna no. No.” Tre no. “No, alla donna no. No.” “No, alla donna no. No.” Io che devo dire? Che si dice in questi casi? Si dice che questa è una bugia, con molta serenità, senza arrabbiarsi, senza… Anzi, questo dovrebbe tenerci più tranquilli, no, Vanni? Si dice che questa una gigantesca bugia su un punto decisivo della causa e che chi dice le bugie è un bugiardo, e la gente non si manda in galera perché ci sono i bugiardi. Sono i bugiardi che devono andare in galera, è diverso. E non tenuti lì come i pulcini della stoppia. In galera devono andare. 

Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: “No, alla donna no. No”. Pagina 29-30, volume II dell’incidente probatorio. C’è un altro collega della parte civile, l’avvocato Pellegrini, che in quel contesto, insomma, la cosa è veramente indigeribile. È indigeribile. È vero, ha ragione il Pubblico Ministero che con queste dichiarazioni non si doveva arrivare a dibattimento, sono d’accordo con lui. Ma non nel senso che ha detto lui, che si doveva concludere con un rito abbreviato: si doveva concludere con un’archiviazione. Qui non si doveva impegnare il tempo delle Signorie Loro con situazioni di questo genere e con richieste di ergastoli correlate a queste. In un paese civile non si arriva al dibattimento con un chiamante in correità di questo profilo, di questa personalità, di questo interesse, di questa banalità. Povero disgra… Alla fine, guardi, veramente scatta la pietà cristiana. Oltre certi limiti di indignazione scatta la pietà cristiana. “No, no, alla donna no.” Allora l’avvocato Pellegrini, sempre nel volume II dell’incidente probatorio, pagina 55, sì, 55, volume II, riprende l’argomento perché dice, questa non la può passare, qui bisogna metterci una pezza. E come sempre succede, le pezze sono peggiori del buco. Perché dice: “Ma alla Pia fu sparato un colpo di pistola, due colpi o nessun colpo?” Questa è un po’ più corretta come domanda, perché perlomeno conclude dicendo nessun colpo. E Lotti: “No, alla ragazza no. Come, sparato alla ragazza? No.” ‘Non me l’ha detto nessuno che gli hanno sparato alla ragazza, come facevo a dirlo?’ Insiste l’avvocato Pellegrini: “Non fu colpita alla testa con un colpo di pistola?” Questa è suggestivissima, perché voglio dire, quando tu, se sei una persona normale, ti accorgi che gli avvocati della parte che non ti dovrebbe crocifiggere, insistono tanto su questo e tu dici sempre no, un qualche dubbio di dire: non sarà meglio rifugiarsi in un ‘non ricordo’? Invece no, qui è stato correttissimo. Vede che i semplici a volte, sia pure contro la loro volontà, aiutano la ricerca della verità: a contrariis, ma l’aiutano. Fosse stato uno più smaliziato. Invece no. L’avvocato Pellegrini dice: “Ma non fu colpita alla testa con un colpo di pistola?” “No, sparò all’uomo.” Anche all’avvocato Pellegrini gli dice così. E insiste l’avvocato Pellegrini: “Non ci fu nessun colpo di pistola verso la ragazza?” Qui la cosa comincia a diventare una farsa, se non fosse una tragedia. Ma l’avete visto quante domande gli hanno fatto su questo argomento? Tutte che suggeriscono la risposta, tutte che suggeriscono la risposta. Una comunque callida persona capace, diciamo, di riflettere su quello che gli sta succedendo, si sarebbe rifugiato in un “non ricordo”. E questo, no. Invece, no, lui dice: “Ma quale… Non ci fu nessun colpo di pistola verso la ragazza?” Ottava domanda, eh, su come morì la Pia Rontini; che lui era a due-tre metri, ha detto. Poi dice 10 metri, poi non tanto vicino… Però, questo, è sicuro : “No, non fu sparato.” E infatti, la risposta, pagina 55 volume II, anche all’avvocato Pellegrini, è un secco “No”. Poi da qui passiamo, dall’incidente probatorio, passano alcuni mesi, andiamo all’udienza dibattimentale del 28 novembre del ’97, fascicolo 55. Pagina 47. Quindi pagina 47 del fascicolo 55 dell’udienza dibattimentale del 28/11/97; “alcuni mesi dopo…” Con tre puntini di sospensione. L’avvocato Bertini che, voglio, dire, che è il suo avvocato, domanda: “Ha avuto l’impressione” – qui siamo arrivati all’impressione – “che avesse colpito ambedue i ragazzi?” Dice: ‘magari la rimediamo così. Lui ha sparato al ragazzo, però qualche colpo di scancìo può avere attinto la ragazza. Quindi, in fondo, non si contraddice Lotti quando dice, alla ragazza, no? Notate la callidità, diciamo… No, la callidità, la suggestione della domanda, no? Questa è la teoria della pallottola vagante che fu sostenuta dalla Commissione Warren, qui in dimensione molto più piccola, ovviamente, a proposito dell’omicidio di Kennedy, no – alcione sere fa hanno dato quel bellissimo film – per dimostrare che Kennedy fu ucciso da un unico sparatore. Siccome c’erano delle ferite che non si spiegavano, allora fu teorizzato, con le leggi della fisica, che una pistola orientata da una parte, poi era risalita, poi era andata a destra, poi era scesa a sinistra. E finalmente… senza neanche sciuparsi. E quindi l’avvocato Bertini dice: “Ha avuto l’impressione che avesse colpito…” -impressione, vai – “che avesse colpito ambedue i ragazzi?” E allora Lotti comincia a dire: “Mah, di colpi ne è partiti diversi. Li avrà presi di certo, di certo, tutti e due. E bene.” Come dice quel proverbio? Oh, non mi entra in testa, eh.
Avv. Nino Filastò: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Eh? Sì, qui veramente brutta.
Avv. Nino Filastò: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Eh. questa è l’ennesima gigantesca offesa, offesa, offesa, alla vostra umanità, signori. Guardate, alla vostra intelligenza.
Avv. Nino Filastò: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: La domanda è orrenda.
Avv. Nino Filastò: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: E, dopo alcuni mesi, appunto noi abbiamo la progressione, per usare un linguaggio caro al Pubblico Ministero abbiamo una progressione delle rivelazioni. Voi la chiamate, Signori? Eh? Quando vi guardate nello specchio la mattina, dopo questo episodio della vostra vita, eh, e vi ricorderete, se mai ne avrete voglia, di queste situazioni, io non so cosa deciderete. Cosa direte? Siamo stati presi in giro? Avrete rispetto per la vostra intelligenza e prima ancora di avere pietà per l’infelice? “Ha avuto l’impressione di avere colpito ambedue i ragazzi?” “Mah, di colpi ne è partiti diversi. Li avrà presi di certo tutti e due.” Bene, insiste l’avvocato Bertini, che sono convinto – non ho elementi per dirlo – non debba essere quell’avvocato – non lo so, comunque lo sottolineo – che, nella telefonata che Lotti fa alla Nicoletti, dice: “L’avvocato” – non so chi era. Si dirà, si dovrà dire, se quella telefonata è genuina – “mi ha detto che è poco, che devo dire di più.”, ve lo ricordate? – “che devo parlare dell’84, dell’83, dell’82… Ma io un so nulla, che dico?”
Presidente: Ora non lo so, ma mi pare che fosse un altro…
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Sì, Presidente. Ma siccome, Presidente, la ringrazio del richiamo, però… No, e torna anche a proposito, Presidente. Perché, vede, in questa – e apro una piccolissima parentesi con molta serenità, con molta pacatezza e magari col tono un po’ sforzato solo dalla stanchezza, dopodiché, se non le dispiace, io smetto – dovuta… Io devo dire questo. E questo argomento mi pare che sia funzionale al discorso che stiamo facendo. Perché, vede, c’è stato finora, in sette giorni, in sette giorni di contumedia contro il Vanni –  tre giorni ha parlato il Pubblico Ministero che è la pubblica accusa; due giorni hanno parlato le parti civili, che sono la privata accusa; un giorno ha parlato l’avvocato Bertini che, in pratica, è un accusatore anche lui, no, evidentemente del Vanni – quindi, in sei giorni, ininterrotti, o comunque interrotti relativamente, le vostre orecchie sono state bombardate, eh? da una, per carità, legittima – correggo: legittima, legittima, previsto dalla legge, legittimo tentativo di disumanizzazione ingigantito dai mass-media – disgraziatamente il Pacciani è andato a morire proprio adesso – da un tentativo di disumanizzazione di una persona umana, che è una di quelle cose, signor Presidente, che uno se le deve ricordare poi quando si sveglia la mattina e si guarda allo specchio. E questo tentativo di disumanizzazione, addirittura, è stato così montante che è arrivato a lambire anche i difensori, sì, Presidente, di questa persona. Perché mi è stato riferito – e poi se qualcuno me lo contesta, io prendo dei verbali e glielo leggerò, ma voi ve lo ricordate sicuramente – che qualche collega – devo chiamarlo così, perché è un avvocato come me e come l’avvocato Filastò – è arrivato a dire in que… la calunnia, no, è un sentimento, un venticello, che questo tentativo… che noi si difende una persona che loro non avrebbero difeso, eh. Sono discorsi di questo genere che si sono sentiti dire in questa Corte. Eh? Ecco.

Avv. Nino Filastò: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: ‘Perché io, uno che ha buttato la moglie,..’, e poi è completamente falso, come sarà detto. Va bene? Questo significa non avere nozione di deontologia forense, perché avvocato significa chiamato, chiunque sia infelice, perché accusato, ha diritto ad avere un avvocato, da che mondo è mondo. La più antica professione del mondo, dopo un’altra, che non nomino. Ma in senso positivo, questa. Tutti, anche voi nella vita potreste aver bisogno dell’avvocato. E potreste essere sommersi da accuse, le più infamanti possibili. Sentirsi dire in Corte di Assise: ‘ma io quello non lo avrei difeso’, significa non sapere che cos’è un avvocato. Quindi, dice Bertini: “Ma ha avuto l’impressione che avesse colpito ambedue i ragazzi?” Insisto, Presidente. Insisto perché questa cosa, a sommessissimo parere di questo difensore, è veramente intollerabile, inaccettabile in qualunque consesso civile, eh. Dopo il rosario che vi ho recitato prima, eh. Dopo, questo arriva, come .colpo finale, dopo il rosario. E tenete sempre presente la Cassazione quando dice: “Le rettifiche, le modifiche, eccetera, devono essere genuine.” Non devono essere suggerite, oppure correlate a fare entrare il quadro in una cornice che è quella dei dati oggettivi. La ragazza morì con un colpo di pistola in testa. Dice: “Ma di colpi ne è partiti diversi, li avrà presi di certo tutti e due…”, bene. Bertini insiste: “Quando la Pia fu trascinata fuori, era ancora viva la ragazza?” Dice Lotti: “Eh, l’aveva ferita, la unn’era proprio morta in quel momento lì.” Ma questo è un aspetto che mi interessa relativamente. Sono io a chiederglielo, a quel punto, il 09/12, fascicolo 62, perché mi interessa rilevare questo aspetto: se casuale, se casuale. Perché io ho dato il beneficio… gli ho concesso… Non me lo ricordavo. Sono io a fare la domanda qui. Udienza 09/12, fascicolo 62, pagina 42. Pagina 42. È il sottoscritto, avvocato Mazzeo, che dice: ma non è possibile che debba essere così sfacciata la cosa. Io non ci posso credere. Non ci credo io agli avvocati’ che dicono: ma tu devi dire di più. Non ci credo io a questo che oggi ha detto: dentro il furgone non starò, e domani mi dice, no, mi sono sbagliato. Può darsi che sia sincero. Può darsi che veramente lui, poverino, sta facendo imo sforzo. Si sbaglia e si corregge. Sono io a dargliela l’ultima carta. Dico, può darsi che mi dirà… Dice: ‘no, effettivamente io non l’ho visto. Non l’ho visto se è stato sparato con la pistola, non lo so, non l’ho visto’. E io domando: “In che modo fu uccisa la ragazza?” Undicesima domanda, eh, sull’argomento. Pagina 42. Lotti: “Da principio con la pistola.” Mi piace, quel “da principio”. “Da principio con la pistola.” Pagina 47. Lotti: “Gli hanno sparato e hanno preso anche lei.” Tipico esempio di aggiustamento in conseguenza di contestazione. Cioè a dire, di aggiustamento non genuino, non spontaneo; di aggiustamento che rivela la callidità, la falsità del dichiarante. La sua bugia. Perché lui dice una cosa, poi si viene a sapere, si viene a sapere. Infatti questa proprio non la puoi mandare… Poi ci penso io e mi aggiusto. Presidente, io, se non le dispiace, avrei esaurito le mie energie.
Presidente: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Sono le due, Presidente. È dalle nove che sto parlando.
Presidente: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: No, no. Ma stia tranguillo che domani sarò qui alle 9.00 in punto.
Presidente: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: La ringrazio. A che ora, Presidente, scusi?
Presidente: (voce non udibile)
Avv. Antonio Giuseppe Mazzeo: Alle 9.00. Benissimo.

3 Marzo 1998 62° udienza processo Compagni di Merende

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