Mostro di Firenze, a 55 anni dal delitto di Signa ancora dubbi e anomalie. “Il babbo è ammalato, la mamma e lo zio sono morti in macchina”: le testimonianze e la calibro 22

Alessandra De Vita

22 agosto 1968, è notte fonda. 55 anni fa. In una stradina sterrata di Signa, nella campagna fiorentina, c’è una Giulietta bianca. È una zona buia e isolata, a cento metri dalla strada asfaltata e a pochi passi dal torrente Vingone. Un bimbo scende dall’auto, e chiede aiuto alla prima abitazione di campagna che incrocia, dove trova Francesco De Felice che gli apre la porta perché anche lui sveglio, nonostante l’orario. Sono quasi le due, l’uomo si affaccia alla finestra in via Vingone, quando sente suonare alla porta. “Aprimi perché ho sonno e ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”.

Il delitto
Giovedì sera, è passata mezzanotte. Antonio Lo Bianco e Barbara Locci escono dal cinema con il figlio di lei di sei anni, Natalino. Salgono a bordo della Giulietta di lui ma invece di tornare Signa vanno in direzione Castelletti. Sono sul ponte sul Vingone, poi svoltano in una stradina di campagna, non ci impiegano più di dieci minuti. I due sono amanti, si sono appartati per consumare un rapporto sessuale mentre il figlio di lei dorme sul sedile posteriore. Vengono raggiunti da più proiettili sparati dall’esterno. Otto colpi, a distanza ravvicinata. Quattro per ciascuna delle due vittime che muoiono per emorragia a causa delle ferite.

Il bambino

Il piccolo Natalino si sveglia e, visti la madre e lo “zio” morti, scende dall’auto. Tra i reperti, otto bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester serie H. Il bambino si sveglia al primo colpo ma non dirà mai chi avesse in mano la pistola quella notte. Qualcuno lo carica in spalle dopo il delitto e lo porta lungo le strade di campagna, cantandogli “La tramontana“, fino in via Vingone, a due chilometri dalla scena del crimine, davanti ad un casolare di Campi Bisenzio. Natalino è illeso ma è scalzo, ai piedi ha dei calzini sporchi di terra.

Le vittime
Antonio Lo Bianco
 è siciliano, ha 29 anni e fa il muratore. È sposato e ha tre figli. Barbara Locci è sarda, ha 32 anni, casalinga. Suo marito è Stefano Mele, un manovale originario di Cagliari di 49 anni emigrato in Sardegna qualche anno prima, da cui ha avuto Natalino. Le indagini si concentrano subito su di lui, si pensa possa aver commesso il delitto per gelosia. Tuttavia l’uomo ha da sempre un temperamento mite e un atteggiamento succube nei confronti della moglie che non è nuova a situazioni promiscue tanto che in paese è soprannominata “l’ape regina”. Per un lungo periodo Mele avrebbe anche accolto in casa sua Salvatore Vinci, suo amico e amante della moglie. Una perizia psichiatrica diagnostica all’uomo un deficit cognitivo, tanto che in sede processuale gli viene riconosciuta la seminfermità di mente.

Le ricerche
“Ma no, vedrai che non è morta, dormiranno”. Francesco De Felice tenta di rassicurare il bambino ma lui gli risponde che “sono morti davvero, alla mamma ho preso la mano. Sono laggiù, in mezzo ai campi, nell’auto”. L’uomo pensa allora di chiedere aiuto al padrone di casa che abita al piano di sopra e insieme vanno alla caserma più vicina, dai Carabinieri di San Piero a Ponti a Signa. Gli riportano l’accaduto e De Felice sottolinea che davanti alla sua finestra, il bambino era da solo. Con il piantone Mario Giacomini, ripercorrono il tragitto fatto da Natalino, in auto, fino alla fine della trada asfaltata. Arrivano sul ponte, vicino al cimitero, poi scendono e vedono la Giulietta bianca. C’è ancora la freccia di direzione accesa. Trovano i due corpi e tornano in caserma per comunicare quanto accaduto.

La dinamica
I due amanti escono dal cinema a mezzanotte circa. Non passano dieci minuti, e si fermano ad amoreggiare nella stradina di campagna nei pressi del cimitero. Il killer li trucida da lì a poco, intorno alle 00,25, perché sappiamo dai rilievi che li ha sorpresi durante i preliminari ma Natalino raggiunge il casolare un’ora e mezza dopo. Una distanza di poco più di due chilometri divide la casa di De Felice dal luogo del crimine. Distanza che Natalino ha percorso in piena notte e senza scarpe. Davvero difficile credere che l’abbia percorsa da solo. Da un verbale di quella sera si legge che Natalino avrebbe attraversato quella strada “col suo babbo” che poi l’avrebbe deposto in terra battuta in un punto da cui lui poi sarebbe tornato indietro. Lui, da solo, da quel punto avrebbe raggiunto la casa bianca illuminata. Natalino afferma anche che il padre lo avrebbe portato a cavalluccio fino a un ponticello, in terra battuta. Al magistrato Antonino Caponnetto il bambino fornisce poi una versione diversa.

Il colpevole
Stefano Mele, dopo aver negato, e poi coinvolto altre persone, dichiara di aver commesso il delitto. Mele ha sempre accusato il conterraneo Francesco Vinci, anche lui amante di Barbara da cui si apre la complicatissima “pista sarda”: sette anni di indagini tra gli amanti della Locci che non portano a nulla di fatto. Il marito della vittima viene condannato a 16 anni di carcere. Agli inquirenti sembra difficile l’abbia compiuto da solo eppure chi ha sparato sembrava sapere che i due non erano soli quella notte. Resta tuttavia il mistero della pistola, la Beretta calibro 22 Long Rifle che Stefano Mele dice di aver “gettato via”, ma che non è mai stata rinvenuta dai carabinieri nei pressi della scena del crimine. Chi gli ha procurato quella pistola?

Il mostro di Firenze
L’omicidio dei due amanti, viene indicato come il primo vero delitto del mostro di Firenze. I bossoli ritrovati sono gli stessi dei delitti del Mostro a partire dal 1974. Quattordici anni dopo, nel 1982, dopo altre quattro coppie assassinate, una pista collega i duplici omicidio del 1974 (Rabatta), 1981 (Mosciano e Calenzano) e quello avvenuto a Baccaiano, alla pistola di Signa. Era la pista giusta o si è trattato di un accurato depistaggio? Quando per il mostro si giunge a un processo, quello all’assassino seriale Pietro Pacciani, verrà detto che l’arma, la pistola degli otto duplici omicidi risulta essere sempre la stessa, ma che è passata di mano dai sardi ai cosiddetti “compagni di merende” Mario Vanni e Giancarlo Lotti, identificati come gli autori di quattro duplici omicidi ai danni delle coppiette che si appartavano in auto, nelle campagne fiorentine. Dopo ben 55 anni, il delitto di Signa resta il punto nodale a cui è attorcigliata un’impenetrabile e truce saga noir, la più misteriosa forse. Oggi ci sono le sentenze di condanna ma non per tutti i delitti e quello di Signa resta avvolto nel mistero, sebbene ci sia un condannato che ha confessato, persistono anomalie e dubbi. Resterebbe la necessità di indagare e scavare un po’ più a fondo.

Il delitto di Scopeti
Pochi giorni fa, le figlie di Nadine Mauriot, ultima vittima della calibro 22 (Scopeti, settembre 1985) hanno annunciato di voler visionare le diciassette fotografie che la madre e il fidanzato Jean Michel Kraveichvili avevano scattato durante la vacanza troncata da un tragico e sanguinolento epilogo in una tenda da campeggio. L’avvocato Vieri Adriani è riuscito a strappare un consenso al gip, che ha firmato per il recupero di una Nikon e del suo rullino. In procura c’è un pool al femminile, composto dalle pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti a cui tocca adesso mettere ordine tra i reperti fotografici e cercare nuove tracce genetiche. Le indagini non si fermano e potrebbero fare luce anche sugli altri delitti del Mostro di Firenze.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/08/22/mostro-di-firenze-a-55-anni-dal-delitto-di-signa-ancora-dubbi-e-anomalie-il-babbo-e-ammalato-la-mamma-e-lo-zio-sono-morti-in-macchina-le-testimonianze-e-la-calibro-22/7268593/

22 Agosto 2023 Stampa: Il Fatto Quotidiano – Mostro di Firenze, a 55 anni dal delitto di Signa ancora dubbi e anomalie. “Il babbo è ammalato, la mamma e lo zio sono morti in macchina”: le testimonianze e la calibro 22
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