«Il vero Mostro di Firenze, se non è morto, è ancora in libertà». Un caso da riaprire secondo Pino Rinaldi
Intervista
«Il libro nasce dalla volontà di raccontare e dare voce a quello che fu il lavoro svolto dal generale Nunziato Torrisi, che seguì il caso insieme a Mario Rotella dal 1983, in qualità di tenente colonnello del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Firenze. Torrisi partecipò al caso perseguendo quella che viene comunamente chiamata la “pista sarda” e – negli anni che passò a Firenze – raccolse indizi, prove e testimonianze che poi riportò nel suo “Rapporto Torrisi”. Un documento di 173 pagine che racconta una storia ben diversa da quella comunemente accettata.»
E’ una storia di crimini, di ombre, di sospetti, di depistaggi, di potere quella del Mostro di Firenze. Una storia che nasce con una spietata scia di sangue fatta di 8 duplici omicidi, e tante morti collaterali, che sconvolsero quell’Italia e quella Toscana segnando un punto di svolta nella nostra storia nazionale. La storia del Mostro di Firenze, infatti, ha creato una sorta di caso-mondo, una disciplina di studi (la mostrologia), una comunità di studiosi, appassionati e esperti, ed anche una sua macabra e grottesca mitologia, ricca di personaggi, piste e storie. Maghi, spie, mummie, legionari, sette, banditi, servizi segreti deviati, inquisitori, pastori-assassini, immigrati sardi, stragisti, voyeurs, compagni di merende e di sangue. Le ricostruzioni sul caso del mostro di Firenze come un gotico annuario del Censis hanno raccolto, infatti, tutti i fenomeni sociali e criminali italiani… anche quelli da baraccone. Un caso che oggi ha riscoperto la sua importanza tramite la riemersione di quella stessa pista sarda che è stata spesso sottovalutata e che ora ha visto una rinnovata attenzione tanto da poter riscrivere la verità ufficiale sul caso indagando e forse chiarendo una verità storica ancora di difficile definizione.
Per meglio riscoprire questa pista occorre, quindi, leggere “Il mostro è libero (se non è morto). Firenze: 16 delitti ancora senza il vero colpevole. La sconvolgente indagine del carabiniere Torrisi” di Pino Rinaldi e Nunziato Torrisi. Un saggio che riapre il caso riprendendo le tesi del generale Torrisi, attraverso una ricostruzione affascinante e rigorosa che ricorda il mondo delle paranoie giudiziarie della “Storia della colonna infame” manzoniana e nelle fosche atmosfere del Giorno del giudizio di Salvatore Satta. Ne emerge un saggio a due voci che si legge come un potente e inquietante romanzo sul male, sull’Italia, sul potere. Un noir antropologico che affronta le terribili e atroci vicende del più controverso cold case italiano raccontato da un grande giornalista e da un civil servant e investigatore la cui storia è tutta ancora da riscoprire. Ne parliamo con Pino Rinaldi, giornalista investigativo e autore di documentari e programmi di cronaca nera come “Detectives” e “Faking it-Bugie criminali”.
-Dottor Rinaldi perché “Il mostro è libero (se non è morto)”?
Il titolo del libro scritto da me e Nunziato Torrisi, che lei ha appena citato, sostanzialmente afferma l’idea che la teoria del Mostro di Firenze come “mostro a tre teste” -incentrata sulla partecipazione dei compagni di merende e la presenza di una pista esoterico-massonica – nonostante esprima la verità giudiziaria, non corrisponda, a mio avviso, alla verità storica. Nel libro, oltre a ricostruire le dinamiche e gli ambienti che hanno accompagnato questo caso, abbiamo mostrato, infatti, che il Mostro non è uno dei cosiddetti compagni di merende, ma che il vero mostro, se è ancora vivo, è ancora in libertà. Vanni, Lotti e Pacciani, a mio avviso, non potevano essere, del resto, gli autori materiali dei delitti che gli si attribuivano, e la teoria dei cosiddetti “mandanti gaudenti”, inoltre, si è rivelata inconsistente e priva di prove concrete. Tanto da essere stata sconfessata nel tempo anche da magistrati di alto profilo che hanno partecipato ai processi.
-Perche è critico e scettico verso questa ricostruzione?
La ritengo inconsistente per numerose motivazioni, ma in primo luogo perché basata sulla testimonianza di una figura discutibile, come Giancarlo Lotti.
Lotti era, infatti, una persona con gravi problemi personali che dopo aver vissuto per anni una condizione economica e sociale complessa e difficoltosa si è ritrovato ad essere un “collaboratore di giustizia”, con uno stipendio e una scorta. Svolgendo questo ruolo, tra l’altro, in modo estremamente sgangherato e controverso… Tanto che gli stessi avvocati di Mario Vanni hanno affermato che nelle sue testimonianze Lotti riferiva (e spesso lo faceva anche male e in maniera parziale e contraddittoria…) delle informazioni che gli venivano sostanzialmente suggerite e raccontate. Dichiarazioni che in molti casi, però, cozzavano anche con la dinamica dei fatti e che si sono rivelate sbagliate, inesistenti e falsate.
-Non crede quindi al cosiddetto secondo livello?
Non solo, la stessa ipotesi di un secondo livello mi sembra estremamente fuorviante. E molti magistrati di grande spessore lo hanno affermato. È significativo, in tal senso, che anche il deus ex machina dei principali processi a Pacciani -Pierluigi Vigna- nel suo ultimo libro disse che erano “inesistenti” le possibilità di un livello superiore. Allo stesso tempo io penso però che soltanto la presenza di un secondo livello avrebbe potuto giustificare la partecipazione dei compagni di merende ai delitti. Quindi, se Vigna non crede al secondo livello io non credo nemmeno al primo.
-Quali altre criticità ha trovato?
Ce ne sono diverse. Pensiamo alla tesi per cui i compagni di merende agivano per prendere le escissioni sotto compenso di alcuni non precisati “mandanti gaudenti”. Le faccio due osservazioni: perché nel delitto del 1974 non ci furono escissioni? E poi se Pacciani, Vanni e Lotti avessero partecipato ai delitti che gli si attribuivano, come mai non ci sono riscontri, prove o tracce della presenza di più persone sulle scene del delitto? Come avrebbe fatto poi Pacciani, con la sua brutalità e con le sue perversioni, a non lasciare tracce (sessuali e non) sulle scene del delitto? In questo senso io credo che Pacciani sia stato “un” mostro, ma non “il” Mostro. Ci sono poi tanti altri aspetti da considerare…
-Ovvero?
In primo luogo, se ci fossero stati dei pagamenti a queste tre persone perché poi non sono stati spartiti tra tutti e tre (o almeno a Vanni), né ci sono tracce di eventuali compensi? Il famoso “tesoro” di Pacciani fu, del resto, più un mito o una voce che altro. Tanto che fu normalizzato e ridimensionato anche dallo stesso Vigna che aveva convenuto che in realtà il patrimonio di Pacciani era il frutto delle sue avarizie e che, tra l’altro, non si trattava nemmeno di una somma così rilevante. C’è poi un altro aspetto: se si trattava di acquistare feticci e parti anatomiche femminili per degli eventuali riti, perché ammazzare una coppia e non semplicemente rapire solo una donna. Il mostro agisce contro le coppiette, nonostante la presenza del maschio sia per lui un fattore di pericolo, e ogni volta la dinamica cambia mostrando come i suoi metodi si aggiornino in seguito ad una evoluzione psicologica o ad una escalation, che non possono che essere il frutto dell’azione di una singola persona. In ultima battuta, ricordiamoci cosa c’era contro Pacciani: una lettera anonima e una pallottola come quelle usate dal mostro nel suo orto. Quella pallottola, però, si rivelò artefatta, come emerse nel 2017, mostrando come essa fosse solo un depistaggio. Uno dei tanti. Allora cosa c’era di concreto contro compagni di merende?
-È stato cristallino. Venendo, però, al suo testo. Come nasce questa indagine scritta a quattro mani con Nunziato Torrisi?
Il libro nasce dalla volontà di raccontare e dare voce a quello che fu il lavoro svolto dal generale Nunziato Torrisi, che seguì il caso insieme a Mario Rotella dal 1983, in qualità di tenente colonnello del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Firenze. Torrisi partecipò al caso perseguendo quella che viene comunamente chiamata la “pista sarda” e – negli anni che passò a Firenze – raccolse indizi, prove e testimonianze che poi riportò nel suo “Rapporto Torrisi”. Un documento di 173 pagine che racconta una storia ben diversa da quella comunemente accettata. Delineando una pista alternativa, che fu vagliata dai carabinieri, dal giudice istruttore Mario Rotella e del sostituto procuratore Adolfo Izzo. Una pista che potrebbe, a distanza di oltre 60 anni, aprire la strada per risolvere finalmente questo caso.
-Quali ne sono le caratteristiche di questa pista?
Secondo il Rapporto Torrisi, i delitti del Mostro di Firenze non maturano nel quadro di supposte sette esoteriche (come si è pensato dopo), ma nascono nell’ambiente che è al centro del primo delitto del Mostro del 1968: quello degli immigrati sardi. L’autore dei delitti è sempre stato lo stesso ed ha replicato in tutti i delitti la stessa macabra dinamica che ha caratterizzato il primo delitto. Un metodo che affonda le sue radici in un delitto collaterale poco considerato: quello del 1960; in cui fu uccisa Barbarina Steri, la moglie di Salvatore Vinci. E proprio quest’ultimo è il principale indiziato come il vero Mostro di Firenze del libro che ho scritto insieme a Nunziato Torrisi.
Una pista che nel tempo fu messa in secondo piano anche perché estremamente scomoda, ma che è a mio avviso l’unica ricostruzione seria e puntuale sul caso.
-Perchè la pista sarda però ad un certo punto fu interrotta?
Purtroppo l’indagine su Vinci, dopo aver riaperto il caso della morte di Barbarina Steri nel 1960, terminò con la sentenza di Mario Rotella, che chiuse il processo con una assoluzione. Ciò fu fatto per evitare una risoluzione del processo che potesse poi precludere ulteriori accuse e indagini successive. In modo da poterla riaprire in qualsiasi momento. Da allora però quel caso non fu più riaperto, ma nonostante ciò il lavoro di Nunziato Torrisi resta una testimonianza cruciale e fondamentale per capire chi fosse davvero il Mostro. Il Rapporto è, infatti, un documento pieno di riscontri oggettivi e di indizi che apre molti scenari. Un testo che è ricco di elementi che mostrano i collegamenti che hanno portato i Carabinieri ad identificare in Salvatore Vinci il Mostro di Firenze. Scoprendo nei delitti del 1960 e del 1968 (il primo delitto del Mostro) i progenitori diretti dei successivi duplici omicidi.
-Cosa troviamo nel testo che ci dice una verità altra sul caso del Mostro di Firenze?
Nel dialogo con Torrisi mettiamo in fila il profilo criminale del soggetto evidenziando le ragioni specifiche e quelle generali che a nostro avviso lo hanno portato ad operare e che ne hanno condizionato l’azione. Ogni delitto del Mostro – salvo quelli condizionati dalla necessità di scagionare in fretta dei testimoni scomodi rinchiusi in carcere – affonda le sue radici nell’abbandono, nel tradimento, nella perdita di una figura femminile che ne possa stabilizzare gli eccessi e surrogare i desideri. Una condizione che si rivelerà nel tempo paradigmatica dei delitti del mostro. Nel 1960, infatti, Barbarina Steri decide di lasciare suo marito, Salvatore Vinci, dopo averlo tradito con il suo primo amore Antonio. La Steri verrà ritrovata però morta il giorno prima del suo trasferimento a Cagliari (mossa dalla necessità di allontanarsi dal marito) in circostanze sospette, e la sua morte sarà archiviata come suicidio. Anche se gli elementi indiziari ci dicono tutt’altro. Il primo delitto del Mostro invece nel 1968 avverrà in concomitanza di un altro abbandono (anche se vi era già stato un primo distacco) per Vinci: quello della sua amante, Barbara Locci, per il suo compagno di allora Antonio Lo Bianco. Da quel momento in poi gli omicidi seguiranno una dinamica affine e che ogni volta si farà più efferata e crudele. La flagranza di un atto sessuale, la separazione della donna dall’uomo dopo aver ucciso l’uomo e l’accanimento sulla donna. Lo vedremo altre volte ed in ogni occasione sarà rievocato e rivissuto quello stesso delitto del 1968 e lo stesso “trauma” del 1960.
-Che significato ebbe il delitto del 1960?
Fu l’inizio di un paradigma che si applicò via via ogni volta a partire dal 1968 a tutti i delitti del Mostro. Vendicare un abbandono e ostacolare un atto sessuale nel momento stesso in cui esso si consuma.
Il delitto del 1960 fu taciuto anche per la testimonianza estremamente discussa del fratello della Steri – che aveva con Salvatore Vinci un rapporto estremamente ambiguo e controverso – che scagionò il cognato. Tutti a Villacidro sapevano, però, chi fosse Vinci e la debolezza e soggezione del cognato nei suoi confronti. Quel delitto fu la prefigurazione del delitto del 1968: c’era una coppia di amanti, un tradimento, un abbandono. E dettaglio non da poco, Antonio e Barbara erano i nomi di entrambe le coppie coinvolte in questi delitti (anche se nel delitto del 60 Vinci saprà del tradimento solo successivamente e non verrà colpito l’uomo).
-Che legame c’era invece tra Vinci e gli altri delitti?
Se indaghiamo gli alibi successivi la situazione è ancora più complicata perché per i delitti del 1984 e del 1985 i suoi alibi sono stati facilmente smentiti. Le faccio un esempio clamoroso. Lui dice che dopo il delitto di Vicchio alle 3-5 di notte era fuori casa in un parco, solo, a Firenze; a correre perché ama il footing. Una affermazione che non trova conferma nelle testimonianze della sua compagna di allora che smentisce queste abitudini.
C’è poi un elemento chiave a mio avviso. Vinci si accompagna sempre con delle figure femminili che sono sia l’immagine della stabilità e delle apparenze sociali, ma anche lo strumento per esprimere, tramite la forza, la propria bisessualità nascosta e anche le sue perversioni. Infatti Salvatore Vinci faceva incontrare le sue compagne con degli uomini, anche con degli sconosciuti, per poter avere dei rapporti sessuali con gli stessi. In molti casi anche forzandole. Inoltre, ogni delitto che non sia legato alla necessità di scarcerare una personalità chiave incarcerata dagli inquirenti, coincide con l’abbandono di Salvatore Vinci da parte di una di queste donne. C’è poi il dato di questo straccio con delle macchie di sangue e della polvere da sparo che fu ritrovato nascosto in un armadio a casa di Salvatore Vinci tra due lenzuoli puliti.
Uno straccio con delle tracce di sangue, che forse potevano appartenere ad una delle vittime del Mostro, che però quando fu richiesto un test del DNA fu “smarrito”. Il sangue era forse delle vittime? Non lo sapremo mai perché qualcuno quando hanno riaperto il caso lo fece sparire. A mio avviso quella poteva essere la prova decisiva contro Salvatore Vinci. Ma forse poteva non andare bene a qualcuno…
-Nelle indagini, come nei processi, ci furono infatti molti chiaroscuri…
Certamente. Pensiamo agli interrogatori di Lotti nei processi dei compagni di merende. In quelle occasioni quando Lotti affermava delle sciocchezze veniva immediatamente sospesa l’udienza e poi alla sua riapertura “magicamente” le affermazioni di Lotti si rettificavano. Anche in maniera plateale…
-Può farci degli esempi?
Nel delitto di Vicchio Lotti disse di aver sentito la vittima, Pia Rontini, urlare. In quella occasione lui disse di averla sentita nonostante fosse ad una distanza ragguardevole – oltre venti metri – dato che faceva da palo. Una affermazione falsa perché le perizie confermano che con la ferita che gli era stata inflitta, la vittima non sarebbe stata nemmeno in grado di sospirare un “A” e che semmai i rantoli sarebbero stati udibili solo da chi fosse stato estremamente vicino. Di fronte a quella obiezione Lotti provò a dire che lui non disse “urlo” ma “gemito” correggendo in maniera stravagante l’italiano dell’avvocato di Mario Vanni che lo controinterrogava. Uno dei momenti più grotteschi della nostra giustizia… Un altro aspetto è che a Baccaiano di Montespertoli, durante il delitto del 1982, in cui la macchina di una delle vittime finì nel fossato adiacente alla carreggiata della strada, Lotti affermò che sulla strada c’erano due macchine: la sua macchina e quella di Pacciani. Di queste due macchine i testimoni, che transitarono a distanza di pochi minuti dalla dinamica del delitto, ci dicono, invece, che non c’era nessuna tracce…
-Cosa ne deduce?
Bisognava offrire una verità alla società e alle istituzioni e per fare ciò era necessario trovare un colpevole (o dei colpevoli) e fu fatto di tutto per riuscirci. A ogni costo. Le vicende dei processi dei compagni di merenda sono, per quanto vale il mio giudizio, uno dei momenti più bassi della nostra storia giudiziaria. Dei processi svolti senza prove concrete o ricostruzioni credibili. Al contrario quella ricostruzione mia e di Torrisi indaga il filone di indagine su Salvatore Vinci con spiegazioni, dettagli e fonti cercando di aprire una luce anche per quello che riguardano i delitti collaterali. Senza evocare maghi, poliziotti o killer stranieri…
-Si riferisce ai delitti delle prostitute?
Sì, esattamente. Sono tanti i delitti collaterali associabili al Mostro e in più casi sono stati estremamente trascurati. Ed invece ci sono molti elementi, molte prove e molti aspetti che non andrebbero sottovalutati perchè sono determinanti per capire chi è (o chi era) davvero il Mostro di Firenze. Elementi non presenti nel libro, anche per non appesantire la lettura, ma che sono alla base di un nuovo libro – di cui in realtà è la prima volta che parlo – che stiamo scrivendo con Nunziato Torrisi.
-Ci può fare qualche esempio?
Pensiamo al caso della prostituta Luisa Meoni, nella cui abitazione, dove ne fu rinvenuto il cadavere, fu trovata una ricevuta della azienda di Vinci “Pronto intervento casa”. Ma questo non è solo un dettaglio. È l’inizio di una indagine ancora da raccontare … In questo nuovo libro, infatti, andremo a ricostruire in toto non solo lo scenario delle morti collaterali, dei sospetti, dei casi tralasciati, ma mostreremo anche gli errori, le nefandezze e le false verità che hanno accompagnato la storia del mostro di Firenze. Partendo dal lavoro di grandi magistrati che hanno cercato di scoprire chi fosse il Mostro oltre ogni ragionevole dubbio, come Francesco Ferri e Piero Tony, e non solo di trovare “un” mostro.
-Che profilo può darci del giudice Pierluigi Vigna?
Io credo che Vigna fosse un genio della giurisprudenza ed uno dei più grandi magistrati italiani di tutti i tempi. Ma a mio avviso di fronte all’errore fatto con l’incarcerazione di Francesco Vinci purtroppo decise di abbandonare la pista sarda su cui anche lui stesso aveva convenuto in un primo momento. Quell’errore gli impedì di seguire quel tracciato e lo portò ad opporsi a essa. Lui sbagliò soggetto e ciò probabilmente lo condizionò di fronte a delle evoluzioni profondamente significative. Anche se negli ultimi anni della sua vita fu critico verso l’esito dei processi sul Mostro. Fu però un grande giurista e magistrato la cui carriera parla da sé.
-Quanto ha pesato il conflitto interno tra Vigna e Rotella nella ricerca della verità?
Se non si è riuscito a trovare l’assassino molto è dipeso anche dal ruolo che il conflitto interno tra la Procura e l’ufficio del giudice istruttore ha giocato nell’indagine. Uno scontro che ha diviso le indagini e ha creato molta confusione e divisioni. Alla luce anche di questa domanda riconosco che questa vicenda non sia, infatti, solo il più grande cold case della storia criminale italiana, ma anche la spietata rappresentazione dell’eterno conflitto tra pezzi dello stato: polizia e carabinieri, procure e giudici, pressioni politiche e ambizioni di fama e di notorietà.
-Cosa ne pensa delle teorie che recentemente hanno avuto una rinnovata diffusione?
Io nella mia carriera ho seguito tanti casi e in generale posso dire che spesso accade che di fronte a delle problematiche nella risoluzione di un caso e a pressioni mediatiche ed istituzionali spesso si ricorre a trame esoteriche, piste sataniste o servizi segreti. Mentre poi -quelle rare volte che ci si riesce- si scopre che la verità è molto più concreta e fattuale di quanto si pensi. Non voglio parlare perciò di piste secondarie e inconsistenti. Sono sciocchezze. Ho scritto questo libro perché ho avuto la possibilità di raccogliere la testimonianza e il racconto di Nunziato Torrisi. C’è il suo lavoro di grande servitore dello stato e il mio da giornalista investigativo. L’ho scritto a quattro mani con lui e senza di lui forse non lo avrei mai scritto. Il mio intento è stato quello di cercare la verità storica sul caso, non una pista suggestiva o intrigante.
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