Firenze, 20 agosto 2018 –  Cinquant’anni non sono bastati. Cinquant’anni dopo il primo delitto firmato dalla calibro 22, la procura indaga ancora sui delitti del mostro di Firenze. Anzi, gli inquirenti sono più che mai convinti che la soluzione definitiva di questo rebus sanguinario, sedici omicidi e un’inchiesta giudiziaria intricata dove non sono mancati abbagli e depistaggi, si annidi proprio in quel 21 agosto del 1968, a Castelletti, Signa.

Per questo, a Giampiero Vigilanti, l’ex legionario di Prato sott’accusa oggi per aver avuto un ruolo negli otto duplici omicidi, i magistrati contestano anche quel primo assassinio. Quello per cui, neanche in primo grado, è stato mai condannato Pietro Pacciani. Quello che non tocca i compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti, colpevoli ma soltanto per le ultime quattro atrocità del mostro. Quello che fu commesso, a dar retta alle sentenze, da Stefano Mele, il marito tradito di Barbara Locci, trucidata dai proiettili Winchester serie H sparati da un’introvabile calibro 22, assieme all’amante Antonio Lo Bianco, salvando però suo figlio Natalino, che dormiva sul sedile posteriore della Giulietta.

Ma alla  colpevolezza di Mele, morto vent’anni fa, credono in pochi. Eppure nel 1968, i carabinieri cercarono subito il marito, che non aveva neanche una macchina. Lui, che venne trovato sveglio all’alba nella sua abitazione a Lastra a Signa, puntò il dito su altri sardi come lui, in particolare Salvatore e Francesco Vinci, anch’essi amanti di Barbara, l’ape regina del clan. Mele accusava, ma poi piangeva e si gettava in ginocchio a chiedere scusa. Alla fine disse di aver ucciso lui, anche se la pistola non venne mai trovata. Si beccò quattordici anni e se li fece tutti, finendo nel dimenticatoio fino a un giorno d’estate del 1982. Mentre l’Italia era ipnotizzata dal mondiale di Spagna, il mostro trucidò un’altra coppia. La quarta. No, la quinta: perché un maresciallo di carabinieri si ricordò, forse sollecitato da un anonimo, che una calibro 22 aveva ucciso una coppia anche nel 1968. Vennero ritrovati i bossoli (erano dentro al fascicolo Mele), le perizie confermarono che la pistola, misteriosa, era la stessa.

E così, Mele tornò ad avere un ruolo chiave in questa storia. Ma non fu d’aiuto, anzi: la cosiddetta «pista sarda» creò falsi mostri e probabilmente ritardi nelle indagini. Oggi, a rendere interessante la figura di Vigilanti è proprio il possibile legame con i «sardi». Abitava nel paese dei Vinci, Vaiano, proprio in quel 1968 che segna l’inizio dell’intrigo. Cosa sa Vigilanti? Del suo passato burrascoso e sanguinario, il legionario di Prato non ha mai fatto mistero. Del resto, fu lui stesso a bussare alla redazione de La Nazione, a Prato, per raccontare della sua esperienza in battaglia in Indocina. Il grande intrigo sta in quell’arma, probabilmente una Beretta da tiro a segno. Che ammazza nel 1968, poi si ferma fino al 1974, quando uccide a Sagginale, in Mugello. Poi si rinfiamma: giugno 1981, a Scandicci. Ottobre 1981, Calenzano. Giugno 1982, Baccaiano. Settembre 1983, Giogoli. Luglio 1984, Vicchio. Nel settembre del 1985, agli Scopeti di San Casciano, il mostro uccide per l’ultima volta e pratica ancora una volta escissioni sul corpo femminile.

Un delitto ancora più truce dei precedenti, a cui segue un gesto clamoroso, senza precedenti in questa striscia assassina: al pubblico ministero Silvia Della Monica arriva una busta, contiene un lembo di pelle del seno dell’ultima vittima. Oggi, quella busta è stata analizzata, a caccia di tracce di dna. Ma pare che chi confezionò quella missiva, che aveva il sapore di una sfida agli inquirenti che brancolavano nel buio, usò la colla per chiuderla e fece attenzione a non lasciare altre tracce. In compenso, è in corso una vastissima perizia su un gran numero di reperti accumulati nell’inchiesta infinita. Alla scienza, la procura di Firenze ha affidato il compito di trovare la prova regina che possa confermare le indagini compiute o corroborare quelle in corso. Per attendere questi risultati, il giudice per le indagini preliminari ha concesso una proroga di sei mesi, all’inchiesta infinita. Vigilanti a novembre compirà 88 anni; l’altro indagato, il suo medico Francesco Caccamo, ne ha uno di meno. Tempo, dopo mezzo secolo, non ne resta molto.

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