Elisabetta Ciabani, il mistero di un suicidio imperfetto
Quando si pensò che il mostro di Firenze era a Sampieri
Scicli – Era il 22 agosto del 1982 quando Elisabetta Ciabani, una giovane studentessa toscana in vacanza in Sicilia, fu trovata senza vita nella lavanderia del residence Baia Saracena a Sampieri di Scicli, un piccolo paesino di mare sul litorale ragusano. Sono passati 35 anni da allora, ma il mistero sulla sua tragica fine non è mai stato dipanato. Il caso fu frettolosamente archiviato come suicidio, ma a questa teoria non credette mai nessuno, né la stampa nazionale che seguì la vicenda con interesse, né i familiari, né le persone che l’avevano conosciuta. Perché una ragazza di 22 anni avrebbe dovuto suicidarsi? Si disse che era scontrosa e taciturna, che aveva paura degli uomini ed era soggetta a frequenti crisi depressive. Ma queste erano solo voci a sostegno della tesi degli investigatori sciclitani e modicani ai quali venne affidata l’indagine, la cui principale preoccupazione sembrava essere quella di impedire che la psicosi del mostro di Sampieri potesse danneggiare le attività turistiche della zona. Elisabetta era una ragazza normale, riservata sì, ma senza particolari problemi psicologici o difficoltà a socializzare. Veniva da Firenze, dal quartiere di San Jacopino, in Via Ponte dell’Asse 13, dove abitava da sola con la madre Anna Maria mentre i suoi due fratelli, Riccardo e Gianna (più grande di lei di quasi 18 anni) vivevano per conto loro. Studiava architettura e sognava di diventare arredatrice d’interni. Ogni tanto faceva qualche lavoretto per non pesare sulla famiglia, ma niente di impegnativo. Nella sua vita non c’era niente di sospetto, non beveva, non faceva uso di droghe, non aveva relazioni pericolose. Era la figlia perfetta che ogni mamma desidera avere.L’unico punto oscuro era la supposta amicizia con Susanna Cambi che abitava nel suo stesso quartiere e che fu la quarta vittima del mostro di Firenze insieme al fidanzato Stefano Baldi la notte del 23 ottobre 1981.
Elisabetta era arrivata a Sampieri il 3 agosto del 1982 con sua sorella Gianna e suo cognato Silvano Rotolo accompagnato dalla madre Jolanda ultraottantenne e dalla figlia di primo letto Lorena, 29 anni. Forse non era un gruppo ben assortito, ma erano tutti felici di trascorrere quattro settimane al mare in un posto così bello e tranquillo, lontano dagli schiamazzi delle località balneari superaffollate. Avevano preso in affitto un appartamento a Baia Saracena, un modesto casermone di 3 piani con 45 alloggi a due passi dalla spiaggia che disponeva di una lavanderia comune sul terrazzo. Eh sì, il terrazzo, la tomba di Elisabetta. E’ lì che il 22 agosto 1982 un’inquilina di Baia Saracena che aveva della biancheria sporca da lavare la trovò. Elisabetta giaceva supina in un lago di sangue con un coltello conficcato sotto la mammella sinistra e un taglio al basso ventre, tra l’ombelico e il pube. Qualcuno l’aveva vista andare in lavanderia quella mattina? Qualcuno l’aveva sentito gridare? Qualcuno aveva notato persone sospette che si aggiravano per il residence? Non fu possibile stabilire niente. Per motivi difficili da comprendere, gli inquirenti formularono da subito l’ipotesi che la ragazza si fosse suicidata lasciando che una ventina di famiglie di Baia Saracena partissero indisturbati per ferie finite mentre altre, terrorizzate dall’accaduto, anticipassero il rientro con una storia incredibile da raccontare senza essere interrogate o controllate dai Carabinieri. E mancava anche l’elenco completo degli ospiti perché il proprietario non li aveva denunciati tutti, così come prevedono i provvedimenti di pubblica sicurezza. La perizia medico legale accertò che la ragazza non aveva subito violenza sessuale, era ancora vergine e sul corpo non c’erano segni di lotta o contusioni. Suicidio, dunque, fu la diagnosi nonostante il corpo della ragazza presentasse delle strane anomalie. Oltre alla ferita al basso ventre e quella fatale al petto, furono riscontrate lesioni meno importanti al braccio sinistro, una leggera tumefazione alla coscia sinistra e al pube (come se fosse stata colpita da una ginocchiata) e una piccola ecchimosi al labbro inferiore. Era assurdo pensare che Elisabetta, agonizzante, avesse potuto procurarsi da sola tanto strazio proprio lei che, come disse la mamma ai giornalisti, non riusciva a sopportare il dolore fisico e tremava alla vista del sangue. Ciò nonostante, i due medici legali che effettuarono l’autopsia, Mauro Maurri e Franco Marini, confermarono l’ipotesi suicidaria degli inquirenti scatenando le ire dei familiari e l’ilarità di molta stampa nazionale, in particolare Il Messaggero che titolò IL KILLER DI ELISABETTA DORME SONNI TRANQUILLI.
La tesi del suicidio faceva acqua da tutte le parti anche per un’altra considerazione: sull’impugnatura del coltello conficcato nel petto di Elisabetta non vi erano impronte digitali, segno che il killer le aveva cancellate prima di dileguarsi. Per ovvie ragioni, non poteva essere stata la ragazza anche se il coltello in questione era il suo. Lo aveva comprato il giorno precedente al minimarket del residence e il cellophane che lo avvolgeva, con ancora attaccato il prezzo di 1620 lire, fu ritrovato vicino alla porta d’ingresso della lavanderia. Possibile che l’assassino fosse andato all’appuntamento con la vittima senza portare un’arma? E perché Elisabetta aveva con sé un coltello con una lama di 16 cm? Le supposizioni al riguardo si sprecarono, ma la spiegazione era semplice. Il giorno precedente, alla ragazza era toccato il compito di accudire la mamma di Silvano, suo cognato, perché lui e la sorella Gianna erano partiti alla volta di Palermo per accompagnare Lorena all’aeroporto diretta a Pisa. I due fidanzati avrebbero dovuto rientrare in serata, ma poi cambiarono programma e telefonarono per avvisare che sarebbero tornati l’indomani. Faceva caldo e il pomeriggio era lungo. Elisabetta fece un salto al bar per comprare un gelato per lei e una granita per la vecchietta. Risalì in camera e ne ridiscese dopo una mezzoretta per riportare il bicchiere vuoto della granita al barista. Mentre si incamminava verso il residence, si ripromise di depilarsi le gambe e le parti intime l’indomani.
La crema ce l’aveva già, doveva solo procurarsi un oggetto adatto ad applicarla. Così, nel tardo pomeriggio, andò all’emporio attiguo a Baia Saracena e comprò un coltello da cucina da usare come spatola, poi rientrò. Una serata apparentemente tranquilla con una cena leggera e quattro chiacchiere con l’anziana signora anche se qualcuno del residence raccontò di aver sentito Elisabetta urlare e piangere a dirotto quel sabato pomeriggio. Che cosa l’aveva turbata? Non lo sapremo mai. E’ certo, invece, che chiamò la mamma al telefono per sfogarsi e per dirle che sarebbe rientrata prima dalle vacanze, il giovedì successivo, perché a Sampieri si annoiava e perché la convivenza in casa era pesante. Parlare con sua madre la placò. Decise di mettersi lo smalto. Appoggiò i piedi sul bordo del letto ma una goccia rossa cadde dal pennello e macchiò il lenzuolo. Chiese a Jolanda come fare per smacchiarlo, e lei le suggerì di passare prima un po’ di acetone e poi di lavare il lenzuolo in lavatrice.
La domenica del 22 agosto 1982, il suo ultimo giorno di vita, Elisabetta si svegliò di buon ora, indossò il suo costume intero di colore blu e in un secchio mise tutto quello che le serviva per andare sul terrazzo: il lenzuolo sporco di smalto, il detersivo, la bottiglietta di acetone, la crema depilatoria e il coltello ancora cellophanato. Erano da poco passate le otto di mattina, il sole già splendeva e il mare era uno specchio. Una giornata meravigliosa per una fine tragica. Elisabetta salì la rampa di scale ed entrò in lavanderia, versò l’acetone sulla macchia di smalto e mise il lenzuolo a lavare. Da questo momento possiamo fare solo supposizioni sugli ultimi istanti di vita della ragazza. Sulle sue gambe furono trovate tracce di crema, il che vuol dire che Elisabetta intendeva depilarsi mentre aspettava che la lavatrice finisse il ciclo di lavaggio. Pudica com’era, chiuse a chiave la porta d’ingresso e si tolse il costume per non sporcarlo. Lo arrotolò ed ebbe giusto il tempo di stendere la crema prima di essere sorpresa nuda e inerme dal suo carnefice. Si alzò di scatto e cercò di divincolarsi ricevendo una ginocchiata al pube che la stordì e la fece soccombere. Cadde stesa a terra (lo possiamo dedurre dal fatto che la coltellata fu vibrata dall’alto verso il basso) e, come nel peggiore degli incubi, non riuscì a urlare pietrificata dal terrore e dalla paura nel rendersi conto di non avere via di scampo. Chiunque poteva introdursi facilmente in lavanderia. Anche chiudendo a chiave la porta, bastava una leggera pressione per aprirla. La serratura era molto arrugginita e non era così solida da resistere a una spallata o a un attrezzo da scasso. Si parlò di droga e di traffici illeciti che avvenivano sul terrazzo del residence a cui Elisabetta avrebbe involontariamente assistito, diventando così una testimone scomoda. Si ventilò anche l’ipotesi di un balordo nascosto lì in attesa della sua preda. Tutte supposizioni a cui nessuno diede credito. Elisabetta non era un’habitué del terrazzo, si recava raramente in lavanderia e mai così presto.