“Pacciani, Il processo infame”

FIRENZE – Hanno sbagliato tutti, secondo lui. Gli investigatori, i giornalisti, persino i testimoni apparsi all’ ultimo momento dopo anni e anni di indagini improvvisamente pronti a confessare cose incredibili. Per poter dire pubblicamente tutto quello che pensava dell’ inchiesta sul mostro di Firenze il giudice fiorentino Francesco Ferri ha lasciato la magistratura. Della lunghissima e tormentata indagine che aveva portato a identificare in Pietro Pacciani l’ omicida delle coppiette, Ferri si è trovato a siglare l’ ultimo clamoroso atto. Era lui il presidente della seconda sezione della Corte d’ assise d’ appello che il 13 febbraio ha assolto il contadino di Mercatale. Ferri ha compiuto 70 anni subito dopo quella discussa sentenza e qualche giorno fa ha deciso di andare in pensione, con un po’ di anticipo. Perché? Perché nelle librerie sta per uscire il suo libro intitolato “Il caso Pacciani, storia di una colonna infame?” (con prefazione di Manlio Cancogni), in cui Ferri critica pesantemente le indagini svolte dalla procura di Firenze. “Sentivo il bisogno di scrivere queste cose – racconta – per l’ atteggiamento tenuto dagli inquirenti in generale e un po’ anche per come si è comportata la stampa, che tranne che in rare occasioni non ha svolto un ruolo critico e non ha saputo tenere le distanze. Quanto al riferimento manzoniano ammetto che il paragone con la colonna infame non è lusighiero ma ho ritenuto che ci fosse un parallelo con l’ inchiesta, condotta a mio giudizio con prevenzione e corredata da confessioni a tutti i costi”. L’ ex magistrato si riferisce agli ultimi testimoni che hanno incastrato Pacciani e il suo amico Mario Vanni e che non furono ascoltati nel processo d’ appello che era ormai alle battute conclusive. “Sono persone inattendibili – dice Ferri – che hanno raccontato cose false e inverosimili. Mi riferisco ad esempio alle urla dell’ ultima vittima del mostro e a quelle di Pia Rontini: dalle perizie risulta che le due ragazze erano già in coma”. Disinformazione, pressapochismo, voglia di scoop: Ferri non sopportava più niente e nessuno. “Non ce la facevo a restare in silenzio di fronte ad avvenimenti che sono fuori dalla logica e dalla giustizia. Insomma tutto si basa su questi due nuovi testimoni, secondo loro? Ma nessuno si è preso la briga di andare a San Casciano, dove la gente si mette a ridere appena li sente nominare”. Peccato, allora, non averli fatti parlare al processo. “Ora dico che è stato un peccato perché sarebbero cadute le loro testimonianze”, dice Ferri. “Ma in via di principio non dovevano essere sentiti. I testi si sentono quando si ritiene che possano portare qualche elemento utile nella ricerca della verità”. Il libro parte dalla premessa che anche “un essere moralmente spregevole” come Pacciani ha diritto ad “un processo giusto e ad una sentenza giusta” mentre, secondo Ferri, quella di primo grado non è stata giusta “perché mancavano le prove necessarie”. E poi smonta gli indizi principali, il blocco e la cartuccia, dicendo che “la montagna delle perquisizioni ha partorito in realtà due topolini”. Ma le critiche più pesanti, che giustificano secondo Ferri il parallelo con l’ opera di Manzoni sul processo agli untori durante la peste a Milano del 1630, riguardano l’ inchiesta bis. “Come si fa – si chiede l’ ex magistrato – a parlare ora di associazione a delinquere per reinserire Pacciani nell’ indagine? E come si fa a introdurre a processo concluso uno scenario inconciliabile con quello costruito fino a quel momento?”.

di SIMONA POLI

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8 Luglio 1996 Stampa: La Repubblica – “Pacciani, Il processo infame”
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